Il servizio pubblico ha deciso di festeggiare il settantesimo compleanno di Roberto Benigni proponendo su Rai Movie un’ampia selezione delle sue partecipazioni a L’altra domenica. Un programma di culto, in onda sulla seconda rete e tra i primi trasmessi a colori, che ha consacrato le carriere di personaggi innovativi rispetto agli schemi del canale principale. Benigni interpretava uno stralunato critico cinematografico, impegnato a recensire i titoli del momento (Il vizietto, Il paradiso può attendere, Prova d’orchestra, Nosferatu, principe della notte, L’impero dei sensi), ma ogni volta il discorso virava su argomenti diversi, lavorando sull’improvvisazione e sull’alchimia con il conduttore, Renzo Arbore.

Una scelta curiosa, che mette in luce il lato anarchico e sovversivo di uno dei nostri comici più amati, ma totalmente divergente rispetto alla narrazione del personaggio che proprio la Rai ha contribuito a consolidare. Sono almeno vent’anni, infatti, che Benigni è il “lettore della nazione”, l’esegeta for dummies dei testi laici e sacri (la Commedia di Dante, la Costituzione Italiana, la Genesi nella maratona dedicata alla Bibbia, I dieci comandamenti, prossimamente il Cantico dei Cantici ma, attenzione, su Paramount+), il monumento di se stesso.

La vita riserva sempre molte sorprese, certo, e non saremo i primi a notare che chi nasce incendiario alla fine diventa pompiere, benché sia una visione parziale e limitata di un percorso artistico, culturale, politico (dell’attore, dell’autore). E però fa sempre impressione pensare a cosa è diventato – e cosa rappresenta – oggi quel corpo sciolto, clownesco, sapientemente volgare. Cosa resta degli smarrimenti dello sboccato Mario Cioni di Berlinguer ti voglio bene, delle improvvise zampate slapstick messe in un mélo come La luna, del situazionismo che impreziosisce una follia come Il Pap’occhio?

Roberto Benigni con il Leone d'Oro alla Carriera a Venezia 2021 (foto di Karen Di Paola)
Roberto Benigni con il Leone d'Oro alla Carriera a Venezia 2021 (foto di Karen Di Paola)
Roberto Benigni con il Leone d'Oro alla Carriera a Venezia 2021 (foto di Karen Di Paola)

Ma che senso ha rimpiangere la giovinezza di un artista che forse come pochi, pochissimi altri in Italia ha sempre scelto – a volte vincendo, altre tonfando – di misurarsi con sfide nuove, che fossero quelle indicate da autori suggestionati dalla sua figura così unica (i fratelli Bertolucci, Ferreri, Citti, Jarmusch, Fellini, Edwards, Allen, Garrone) o generi e temi da innestare con intelligenza – grazie al sodale Cerami – dentro la sua macchina comica (gli esorcismi, la mafia, il noir, fino all’apoteosi del nazismo)?

Non è che di Benigni ci manca soprattutto ciò che ci manca del nostro passato, cinematografico e non solo? Benigni come sintomo di tutto ciò che ci manca: la capacità rivoluzionaria di mettere in imbarazzo le istituzioni, l’esercizio di una comicità lontana dal regime, l’impeto travolgente che raffigura plasticamente il l’irruenza delle parole, la possibilità che un buffone possa essere ancora un soggetto attivo del discorso amoroso (e sessuale).

Sarebbe capace di raccontarci queste cose? Forse no, forse sì, forse non ne ha voglia, forse non sa dove. Perché è anche una questione di spazi: quale televisione può dargli quei margini di manovra se perfino una (nuova) piattaforma gli chiede l’ennesima esegesi (la Rai lo cerca, e lo trova, per le cerimonie ufficiali, dai David a Sanremo)? Quale cinema può contenere la sua presenza, amministrare la sua libertà, definire per lui un personaggio che non sia testimone della sua immagine pubblica?

Sono trascorsi venticinque anni da La vita è bella, simbolo e summa ma anche epilogo e macigno, e da allora sembra rivendicare lo statuto di magnifica assenza, concedendosi pochi ritorni: un divertissement fumettistico (Asterix e Obelix contro Cesare), un kolossal quasi condannato alla damnatio memoriae (Pinocchio), un goffo tentativo di replicare la formula del capo d’opera (La tigre e la neve), un’offerta che non si può rifiutare (To Rome with Love), una proposta di pace con un sistema industriale e un’ossessione (Pinocchio di Garrone, che l’avrebbe voluto Dogman).

C’è posto per Benigni nel cinema italiano? Il cinema italiano ha bisogno di Benigni (che è stato un vero campione del botteghino)? Ma Benigni ha bisogno del cinema italiano? A noi piacerebbe molto (ri)vederlo sul grande schermo alle prese con qualcosa di diverso, che ci ricordi chi è stato e ci dica chi è adesso.