PHOTO
Ralph Fiennes in Conclave, @Webphoto
Diversamente da molte rappresentazioni cinematografiche precedenti, come il conclave di Moretti in Habemus Papam, che si fonda sulla commedia amara del dubbio personale, o l'ostentato spettacolarismo di Angeli e demoni di Ron Howard, Berger esplora una dimensione differente: il Conclave non come arena di macchinazioni, ma come spazio sacro dove i silenzi, i gesti misurati, la sospensione, rivelano il volto più autentico della Chiesa. Non cerca l’effetto, ma l’essenza. Non mostra il potere, ma la sua incrinatura.
Il suo è un film-rito. Un genere preciso, dove il gesto conta più dell’azione e la parola conserva qualcosa del sacramento. Il ritmo è liturgico, la messa in scena riflessiva. Tutto procede per rivelazioni minime, per movimenti impercettibili. Come in una celebrazione, ciò che accade ha senso perché inscritto in una forma. L’ordine che si oppone al caos.


La superficie del film è armoniosa: i paramenti, i rossi e i bianchi delle vesti, i marmi, i riflessi. Una bellezza ordinata. Ma sotto, una Chiesa divisa, ferita, lacerata. Dentro e fuori. Il conclave come cuore blindato e fragile, mentre il mondo esplode appena oltre i muri della Sistina. L’interiorità esitante di Lawrence e le decisioni esteriori che deve prendere. Lo spirito che soffia e la politica che trama. Tradizione e cambiamento, maschile e femminile: tensioni irrisolte che si caricano di senso nel progressivo svelamento del film. Anche nella sorpresa finale – che non si dice, ma si percepisce come un soffio d'altro – il nuovo si insinua nel vecchio, senza sfondarlo, ma trasformandolo dall’interno.
Berger raccoglie – senza proclamarlo – l’insegnamento di Didi-Huberman: le immagini non sono fari, ma lucciole. Brillano a intermittenza, non accecano. Sono segni umili, sparsi, che sfuggono alla retorica della visibilità. Così Lawrence (Ralph Fiennes), cardinale decano, è la figura esitante del discernimento. Suor Agnes (Isabella Rossellini) è presenza muta e ferma, luce piccola, fuori dalle logiche del potere. Accanto a loro, il cardinale Tremblay (Stanley Tucci) manovra con freddezza, incarnando il calcolo puro. Il cardinale Tedesco (Sergio Castellitto) è l’idolo: voce alta, gesto largo, autorità che si compiace di sé.


Il Vangelo parla di lampade non da nascondere sotto il moggio, ma da porre in alto. Le immagini-lucciole di Berger sono proprio questo: piccole, ma non marginali. Fragili, ma rivelatrici. Le loro traiettorie compongono un altro modo di vedere: meno spettacolare, più vero.
Una parte della critica italiana ha risposto con fastidio, accusando il film di inverosimiglianza. Ma è proprio il realismo a essere fuori posto, qui. Conclave non è una cronaca, ma una forma. Non racconta cosa è accaduto, ma cosa potrebbe – o dovrebbe – accadere, se lo Spirito soffiasse davvero tra le crepe del potere.
E quando l’attentato scuote Roma e la Cappella Sistina, non è un colpo di scena, ma un’interruzione necessaria. Il fuori entra nel dentro. La realtà spezza il rito. E il rito, se è vero, non si chiude: si apre.
Berger ci lascia in questa soglia. Tra visibile e invisibile, tra parola e silenzio, tra autorità e misericordia. Le sue lucciole non danno risposte. Ma indicano – nella notte – la direzione da seguire.