La faremo breve. Per assecondare, anche, il ritmo dell’unica presenza italiana a sigillare Cannes 76: la maestra di cerimonia Chiara Mastroianni, il padre Marcello nel Valhalla della Settima, la madre, Catherine Deneuve, bianca e nera sull’affiche du festival.

Abbiamo un glorioso passato alle spalle, sì, ma non recente: la Triplice Bellocchio-Moretti-Rohrwacher rinnova l’esito inconcludente della Triplice Garrone-Moretti-Sorrentino nel 2015. Forse, il problema è Moretti: permutando gli addendi non (si) vince. Il sol dell’asvenire.

Poco importa, quel paravento – soffia in Svezia? - di Ruben Östlund si abbronza come Nanni non potette: non pago di due Palme in un lustro – The Square nel 2017, Triangle of Sadness l’anno scorso (2020 saltato per Covid) – prenota la terza, e sopra tutto gloria imperitura nell’award season prossima ventura con un palmares che è un capolavoro di diplomazia, e vocazione maggioritaria a uso singolo, cinematografica.

Palma d’Oro a Justine Triet per il thriller di coppia Anatomie d’une chute, terza donna e seconda francese a vincere: fuoriclasse, lui.

Poi, un colpo al cerchio, l’altro a sé stesso (Ruben si piace), laurea: il britannico di semi-culto Jonathan Glazer coll’ebraico in guisa di Olocausto - Arbeit macht Grand Prix? – The Zone of Interest, ispirato dal compianto Martin Amis.

Poi, vuoi che a Hollywood gli sceneggiatori scioperano, vuoi che post-pandemia il sol – scusa Nanni – s’è da levare, ecco un’infilata di asiatici, minori e maggiori.

La Marion Cotillard minore (almeno per bellezza) Merve Dizdar per About Dry Grasses del turco Nuri Bilge Ceylan, di cui non è protagonista – ci fosse stato Dostoevskij, che pare un romanzo russo, avrebbe avuto la Palma.

Poi, il vietnamita trapiantato in Francia Tran Anh Hung, per il commestibilissimo La passion de Dodin Bouffant (il correttore indulge, absit iniuria verbis, in Buffonata), con l’ex coppia Binoche-Magimel; poi, il giapponese per cittadinanza Kore’eda, ovvero la sceneggiatura, non sua (Sakamoto Yuji), di Monster; poi, il giapponese per vocazione Wenders, con l’attore giapponese per cittadinanza di Perfect Days, Yakusho Koji; poi, l’orientale per inclinazione (della bottiglia) Aki Kaurismäki, il cui Fallen Leaves radiocronaca - Est sensibilissimo - la guerra in Ucraina.

A disdire i Pet Shop Boys, Ruben il furbo guarda a Oriente, punto cardinale con ordinalità occidentale: il vietnamita gallico, il nipponico premiato a Cannes, il teutonico nipponico, Kaurismäki che dove, e come, lo metti (bene) sta.

Hollywood, si fa per dire, si deve accontentare di Jane, che premia: notte Fonda, ché Scorsese non ha incantato, Indiana Jones ha floppato e il resto a ruota. Elemental, l’animazione Disney, Watson. Cannes 2023 ha avuto le stelle e, quelle, le strisce, ma non il cinema americano di gusto e sostanza.

Ruben trae il massimo, anche qualitativamente malgrado l’errata distinzione del valore specifico, dal Concorso, si assicura un futuro e, questo davvero triangle of sadness, ci riduce ai minimi termini.

Per fare Bellocchio a cattivo gioco, Rapito avrebbe potuto rubare qualcosa in palmares, Rohrwacher provare qualche Chimera, Moretti no: infimo voto della giuria Screen, ex-aequo con Black Flies, due stelle da Le Monde e Libération, mai così concordi, e la sensazione, sensibilissima, del Nanni propheta in patria.

Meno male che era avvenire, meno male che era, Anatomia di una, caduta: vince Triet, vince l’unico film diretto da una donna, sette in Concorso, capace di dare del tu al cinema. E vince Östlund: sulla Croisette, complice il napoleonico Thierry Fremaux: “Volevamo un presidente donna”, s’è presentato, malgrè le due impalmate, da Turist (il suo film migliore, 2014), ma il prospetto era la traduzione francese. Force majeure.