“Più grande è il budget più piccole sono le idee, più piccolo è il budget più grandi sono le idee”.

Ci perdonerà Francis Ford Coppola per lo scippo, ma l’impressione è che la coppia iraniana Asgari, Khatami lo abbia preso alla lettera. Registi e sceneggiatori che, per necessità, per disperazione ma anche per convinzione hanno cesellato un film clandestino, dalla produzione lampo, dalla troupe scarnificata, già costato loro la libertà. Nel pericolo di ingerenze, nella ristrettezza di mezzi, i due autori nascondono sotto il velo del sarcasmo e dell’assurdo kafkiano, un J’accuse arguto e lucidissimo conto il regime iraniano.

Cinema come finestra su una realtà disperata, dunque, in bilico tra il dramma e la farsa, tra il paradosso e il grottesco. Dodici storie di repressione unite da una scrittura tutta dialogica, sempre vibrante nei ritmi, e filmate da una (sola) camera fissa per dodici long takes. 

A volte sono piani americani, altre primi piani. Comunque si ripropone un duello tra campi e controcampi mai mostrati, sempre allusi e uditi. Una gabbia al visibile e all’agibile che allegorizza, si capisce, quella che regna fuoricampo, fuori sala: teocratica, onnipotente o implacabile proprio perché invisibile. A segnalarcela è la voce o-scena (non solo etimologicamente) di burocrati, passacarte, censori della libertà. Sono anonimi esecutori. Depensanti che applicano la legge e attuano l’assurdo. Inutile sottolineare, però, che le vittime che guardano in camera, incalzando loro, vedono noi.

Vittime che sono bambine, madri, figlie, adolescenti, padri, adulti, disoccupati. C’è chi non può chiamare il figlio David perché “il nome è occidentale”; guidatori che non possono rinnovare la patente per eccesso di tatuaggi; lavoratori che perdono il posto ignorando il Corano. Ci sono bambine, poi, che vorrebbero ballare con la maglia di Topolino e invece si trovano bardate con il chador; donne che rifiutano di farsi stuprare per poter lavorare, e cineasti costretti a stracciare le sceneggiature per poterle girare.

Tanto basta per mosaicare in absentia un carotaggio esaustivo e caustico di una Teheran (di un Iran, di un qualsiasi popolo) supino a un Potere orwelliano. Un Grande Fratello suadente e fanatico che si manifesta come reclusione spaziale e mentale, integralismo, congelamento dell’identità, atrofizzazione del pensiero, rimozione della libertà. E poi esclusione, isolamento, inaridimento, tedio, morte. L’occidentalizzazione dei costumi è lo spettro da abbattere; omologazione, conformismo, proibizionismo i mezzi con cui farlo.

La satira, così, scivola nell’apocalisse (finale) metaforica, diciamo anche allegorica sì, ma civile ora nella sua tremenda attualità. Perché già il titolo italiano – Terrestrial verses in effetti era quello internazionale, omaggio alla poetessa persiana Farrokhazd – preludia all’assurdo, all’illogico burocratico contro cui rimbalzano sdegno e desolazione dei protagonisti. 

La semplicità di stile, la naturalezza di recitazione, la precarietà di scenografia, l’inquadrata ripetitività delle struttura ci consegnano questa gamma di emozioni con brutalità, accuratezza e immediatezza: è nella vocazione popolare, nell’inquietante trasparenza delle situazioni, nell’urgenza di denuncia, nell’iterazione sgomenta dell’identico, nella stratificazione di rimandi e di accuse che questa stridula satira a episodi brilla, inquieta, indigna. E dura.

Dura perché, per esempio, costringe noi a tormentarci su come chiamare nostro figlio se ci è vietato il nome scelto, o a come lavorare senza diventare schiave sessuali di un padrone.
E dura perché, dopo gli appalusi a Cannes Un Certain Reguard, ad Ali Asgari, secondo Variety, in patria è stato ritirato il passaporto, e gli è stato anche proibito di fare altri film.

Insomma, dopo Panahi, un’altra tableau vivant. Questa volta, però, invisibile e impotente.