Si narra che, prima di girare le sequenze finali de Il sorpasso, il magistrale film di Dino Risi del 1962, con Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant on the road sulla Lancia Aurelia B24, regista e produttore, Mario Cecchi Gori, scommettessero sull’esito dell’avventura. Cecchi Gori voleva lieto fine e protagonisti felici, Risi la tragedia. Si affidarono al meteo, in caso di pioggia tutto ok, con il sole, morte del protagonista: fu bel tempo e Il sorpasso, anziché il Sulla strada italiano, gemello del romanzo Usa di Jack Kerouac uscito nel ‘51, divenne macabra satira del miracolo economico.

La commedia, spesso, anticipa i mutamenti delle culture nazionali, soprattutto se cela, come in Risi, il dolore dietro i sorrisi, nessuna meraviglia dunque che, 60 anni dopo, la formula riappaia via Apple Tv, con la saga di Ted Lasso. Allenatore americano del Midwest, chiamato per caso a guidare il Richmond, squadra di calcio della Premiere League inglese, Lasso sconosce i fondamentali del pallone rotondo ma non se ne cura. Interpretata dal flemmatico Jason Sudeikis, la serie ha fatto incetta di Emmy Award e fruttato al protagonista un Golden Globe, perché, come in Risi, induce nello spettatore franche risate, subito ammantate di pena, (no spoiler!), un padre suicida, un marito infido, un’infanzia a patire bulli in famiglia, la solitudine, pur tra i soldi dei ricchi club, la solitudine dei pub di periferia, il tradimento di un compagno.

Il calcio c’entra giusto per la passione dei tifosi, irrazionale senso di appartenenza che solo chi ama il calcio conosce. Per Lasso è dottrina da Maestro buddhista Zen, scuola di vita, non professione. Sudeikis, che ha sviluppato il format con Bill Lawrence, Brandan Hunt e Joe Kelly, ci offre insieme due paesi, Stati Uniti e Regno Unito, l’odio (sacrosanto, a mio avviso), per il culto del tè, spontaneità contro galateo formale, innovazione contro tradizione, con la sagacia con cui Risi tratteggiò gli italiani anni Sessanta.

Ted Lasso
Ted Lasso
Ted Lasso

Dai talk show in cupa, ubiqua, fosca onda, invece, sovranisti, nazionalisti, duri #NoQualunqueCosa difendono, in Europa e in America, l’“identità nazionale” come scolpita nel marmo, quando invece è distillato paziente di umori, generazioni, culture popolari e accademiche. Filo remoto, capace di mettere Gassman alla guida della Lancia e Ted Lasso in panchina, un italiano on the road, come Kowalski, l’eroe di Punto zero, allucinato film cult di automobili del 1971, regia Richard Sarafian. Ma al tempo stesso, filo capace di affidare all’ironia dolente del cowboy Ted Lasso il gioco più amato, il calcio.

Siamo, ecco quel che i passatisti non comprendono, ibridi, meticci, rampolli di alberi genealogici imprevedibili, che ci affratellano. Se non mi credete, guardate Duello a Berlino (in originale Life and death of Colonel Blimp) uscito in piena guerra, nel 1943, in Inghilterra, regia di Michael Powell e Emeric Pressburger, con Roger Livesey nella parte del colonnello britannico Clive Candy, che si illude di combattere Hitler con il fair play sportivo del polo, mentre il suo amico rifugiato politico tedesco Theo Kretschmar-Schuldorff, l’attore austriaco Anton Walbrook, antinazista, gay ed ebreo, gli spiega che serve esser spietati. Il focoso colonnello Candy e il meditabondo ex ufficiale Kretschmar-Schuldorff, che da giovani s’eran battuti in duello a Berlino, già nemici mortali diventano amici per sempre, perché i confini dividono, idee e sentimenti uniscono.