Tra le proposte che mi sono state fatte di recensire, con la distanza degli anni, i capolavori di alcuni autori importanti che hanno suscitato forti critiche da parte del mondo cattolico, Antichrist di Lars von Trier è certamente la più difficile e tormentata.

Vi si narra la drammatica vicenda di una coppia in lutto per la morte del loro bambino che cerca di superare con il dialogo e l’isolamento, e ricuperare la serenità perduta. Il loro tentativo però è sopraffatto da misteriose e malvage forze della natura alle quali dovranno soccombere inesorabilmente. I protagonisti non si chiamano mai per nome, non ne hanno. L’unico proferito è quello del piccolo Nic dalla cui tragedia scaturisce l’indelebile senso di colpa della madre.

Il film ritrae l’archetipo conflitto tra l’irrazionale che travolge il razionale: Lui, terapeuta, rappresenta la scienza, la ragione, la logica; Lei la natura, l’emotività, il caos. La prima parte del film (prologo e primi due capitoli) è pregevole e raffinata sia per la storia, sia per la patinata mise en scene in cui si riconosce la mano di un autore che ci ha abituato a immagini eleganti e originali con uno stile personalissimo. In essa si consuma il dolore condiviso della coppia e l’elaborazione del lutto della madre, lenta e atipica, oltre che straziante.

L’autore concepisce questa parte del film come una lunga e sofferta seduta psicoanalitica eticamente scorretta poiché vi si confondono i ruoli del terapeuta e dell’amante. Ciò nonostante, l’intimo rapporto psico-erotico sembra dare dei frutti. Il sogno e l’immaginazione prendono il sopravvento e il regista li restituisce nella scelta estetica di immagini dalle sfumature contrastanti e rallentate quasi a divenire figurazioni dell’inconscio, consolidando così la situazione finemente psicologica della vicenda. Ma Freud è morto e i sogni sono privi di interesse per la psicologia moderna. In sintonia con la tradizione della Nordisk Film, von Trier ci restituisce un cinema di paesaggio psicologico e naturale, nella triplice funzione descrittiva, narrativa e drammatica. Funzioni che si evidenziano anche nella seconda parte del film (ultimi due capitoli) dove regnano caos e disperazione.

Antichrist
Antichrist

Antichrist

(Webphoto)

Tutto sprofonda irrimediabilmente quando l’irrazionale travolge la convivenza isolata e assoluta e prorompe nella vita del lucidissimo terapeuta attraverso il sogno e l’immaginazione (Freud redivivo?). Il clima richiama le nuance di Shining, ma non ha la stessa verve, causa di alcune inserzioni che rasentano l’eccesso (pornografia gratuita, organi sessuali mutilati), il ridicolo (la volpe parlante, o il corvo risorto) o la brutalità inopportuna. Eden non è un giardino, ma una selva dantesca anticamera dell’inferno. Ciò coincide con la crescente consapevolezza della protagonista. Lei lo accusa di essere distante, di interessarsi a lei come paziente, di abbandonarla perché non la ama: è questo l’apice della piramide delle sue paure.

La vicenda assume progressivamente i toni violenti dello psico-horror. L’insensata coscienza dell’abbandono trasforma la donna da fragile vittima a impietosa carnefice. La sua ansietà si converte in delirio e ossessione. Prevale quel genere di natura che spinge a compiere atti malvagi. E se la natura umana è malvagia – dice lei – questo allora vale anche per la natura femminile. La donna diventa il male. Non ci sono più le “martiri” del trittico femminile (Le onde del destino, Dancing in the Dark e Dogville), né le eroine del maestro spirituale Carl T. Dreyer. Qui le protagoniste sono le sorelle di Ratisbone che scatenano temporali di grandine e manipolano la natura compiendo il male. Il riferimento alla persecuzione delle donne del XVI secolo credute capaci di generare il male è manifesto. Può leggersi come omaggio alla cinematografia muta danese delle rappresentazioni mitologiche del male e dell’orrore, (tra tutti Heksen di Benjamin Christensen, noto come La stregoneria attraverso i secoli).

Charlotte Gainsbourg in Antichrist
Charlotte Gainsbourg in Antichrist

Charlotte Gainsbourg in Antichrist

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Ma la condanna del genocidio originato dalla caccia alle streghe nel film di von Trier si ritorce contro il regista accusato di sessismo e misoginia (il simbolo femminile nella grafica del titolo) con i clamorosi fischi al Festival di Cannes del 2009.

Tra le visioni memorabili del film i plausibili accostamenti metaforici del pianto: la grandine come lacrime delle streghe, la pioggia di ghiande come lacrime delle cose destinate a morire, l’acqua e la pioggia come lacrime di una umanità ferita dal dolore e danneggiata dalla malvagità. Ma anche la processione delle donne senza volto vestite con abiti moderni, a rappresentare le vittime di un patriarcato senza termine di redenzione. E le immagini in rallenty della tragedia del bimbo alternate a quelle della soddisfazione sessuale della donna impedita nell’intervenire.

Rilevante è il taglio del clitoride come segno del tradimento della maternità in nome della libidine, punizione autoimposta che distrugge per sempre il piacere, persino dell’autosoddisfazione. In questo film barocco, l’anticristo è il male assoluto, l’incapacità di amare. Ed è qualcosa di non esterno, ma di personale, intimo, irrazionale, che irrompe come reazione al dolore, alla carenza. Un dolore irrazionale che allontana, che fa chiudere in se stessi nella più profonda delle depressioni, e che si trasforma in pena che punisce e si punisce come reazione disumana, perfida, proprio perché non scaturisce da una difesa.

In tutta l’intera storia non c’è un barlume di grazia, ma solo male. Non c’è traccia di espiazione, ma solo castigo autoinflitto. L’inferno del resto, non è altro che assenza, mancanza, penuria di amore. E ciò non può essere attribuito a una volontà divina che invece ci ha pensati liberi di scegliere anche il male. Sarebbe troppo semplice e puerile. In fin dei conti, l’incapacità di amare non ci restituisce l’immagine e somiglianza a Dio.