Debutta alla regia, Patricia Arquette, ma in Gonzo Girl la vediamo anche come attrice. Non da protagonista, eppure il ruolo di Claudia è qualcosa in più di una comprimaria: è l’angelo di un focolare che è in realtà un incendio, angelo caduto, s’intende, che presidia l’inferno – anzi: la Disneyland del male, come la chiama un personaggio – e lo domina silente. Claudia sovrintende ogni cosa, ufficialmente segretaria adorante e rassegnata di uno scrittore geniale ormai quasi ridotto alla macchietta della sregolatezza. Nei fatti è una moglie devota, una partner in crime, probabilmente una collaboratrice nella scrittura se non una ghostwriter inconsapevole, colei che spiccia le rogne e facilita la vita del divo. È lei a guidare Alley, la giovane arruolata dalla casa editrice affinché lo scrittore produca qualcosa di decente: le trasmette due regole fondamentali (annacquare i drink e dimezzare la droga che le viene offerta), la osserva con un sinistro sguardo materno, non dimentica mai di essere anzitutto al servizio dell’uomo della sua vita.

Perché concentrarsi su un personaggio laterale quando i veri protagonisti di Gonzo Girl sono Alley Russo e Walker Reade, nom de plume di Cheryl Della Pietra (autrice dell’omonimo memoir all’origine del film) e Hunter S. Thompson (il fondatore del gonzo journalism, che ha scritto Paura e disgusto a Las Vegas e Cronache del rum)? Perché, tutto sommato, il rapporto tossico – in ogni senso – tra la ragazza e lo scrittore ci sembra messo in scena in modo piuttosto scolastico. Il passaggio più esplicito in questo senso è la prima esperienza acida di Alley, con inserti cartoon e distorsioni delle immagini abbastanza scontati, ma è proprio tutta la descrizione del parco giochi di Walker a funzionare come la copia di mille riassunti.

Gonzo Girl
Gonzo Girl

Gonzo Girl

Ad Arquette, tuttavia, interessa più la dinamica che il contesto, con il romanzo di de-formazione dell’aspirante scrittrice (certo, lo slittamento dalla purezza allo sballo è abbastanza repentino) che si incrocia con la parabola decadente di uno scrittore in crisi, consapevole che gli basterebbe rimasticare il pregresso per restare a galla e però spaventato di confrontarsi con i fantasmi del passato e la paura della morte. Arquette ha ben chiaro l’orizzonte al quale ispirarsi, cioè la New Hollywood: cita come riferimenti Città amara, Cinque pezzi facili (tra l’altro c’è Ray Nicholson, il figlio di Jack, nel ruolo di un bell’attore di successo impegnato sul set di un Batman...) e Tre donne, immagina la meravigliosa Camila Morone come novella Katherine Ross (ma lei si sarebbe concessa un momento scult come quello dell’aglio?), convoca per un cameo Sean Penn.

Ma Gonzo Girl è piuttosto un period drama che galleggia sulla superficie di un mondo sospeso, un 1992 che continua a credersi gli anni Settanta, andando in profondità solo nel precipitato emotivo di un rapporto che vale una storia, forte di un punto di vista femminile (oltre ad Arquette, la sceneggiatura è firmata da Rebecca Thomas e Jessica Caldwell, oltre a Della Pietra). Merito di Willem Dafoe, che balla sul precipizio del gigionismo ma è ben centrato nel dialogare con gli eccessi di Reade/Thompson, capace di passare in pochi istanti dal vitalismo alle tenebre. Il finale, comunque, resta impresso.