Proseguendo la sua offensiva contro le istituzioni educative e culturali americane, Donald Trump ha chiesto lo scorso agosto ai tribunali di indagare i musei di tutto il Paese e i loro contenuti. Un anno prima del 250° anniversario della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, vuole rafforzare il suo controllo sulla narrazione nazionale, che secondo lui avrebbe dato troppa importanza alla storia della schiavitù.

Rimossa allora dallo spazio pubblico la fotografia di uno schiavo nero scappato da una piantagione della Louisiana nel 1863, sulla sua schiena le cicatrici spaventose dei colpi di frusta. Il suo “ritratto” ha giocato un ruolo fondamentale nella lotta abolizionista. Via pure dai muri della National Portrait Gallery di Washington la tela di Rigoberto A. González, raffigurante una famiglia di rifugiati che attraversa il confine tra Messico e Stati Uniti.

Angela Bassett in Black Panther: Wakanda Forever (credits: Annette Brown/Marvel Studios)
Angela Bassett in Black Panther: Wakanda Forever (credits: Annette Brown/Marvel Studios)

Angela Bassett in Black Panther: Wakanda Forever (credits: Annette Brown/Marvel Studios)

Il dipinto è accusato di fare l’apologia dell’immigrazione clandestina. Da nove mesi, testi e opere raccolte nei musei americani sono sottoposti a un “esame generale” nel quadro di un decreto che mira a restaurare “la verità e la ragione nella storia americana”, ovvero a promuovere un racconto glorioso e a ridimensionare le atrocità dello schiavismo.

Non sorprende allora che una giovane generazione di registi afroamericani si impegni da anni a riqualificare la storia dal punto di vista della loro comunità, alimentando una filmografia che avanza in direzione ostinata e contraria alla scelleratezza revisionista. I demoni dell’America, il razzismo e la segregazione invadono di nuovo le sale cinematografiche. Autori e autrici non si limitano ad adattare questa storia infinita ma collegano gli anni di lotta degli afroamericani all’attualità, all’America di Donald Trump e al movimento Black Lives Matter, che oggi combatte contro i gruppi neonazisti, i suprematisti bianchi e i rigurgiti del Ku Klux Klan.

Di questi autori e di una fitta filmografia, all’ombra dei vampiri e del blues, riferisce con meticolosità il libro di Lapo Gresleri, Black Images Matter – Stili, tematiche e tendenze del nuovo cinema afroamericano (Odoya, pp. 161, € 15,20). Critico e storico del cinema, è già autore della monografia “Spike Lee: orgoglio e pregiudizio nella società americana” e del saggio “Body and Souls. Il corpo nero, #BlackLivesMatter e il cinema afrosurrealista”, suggestiva lettura del cinema di Jordan Peele.

Spike Lee (foto di Karen Di Paola)
Spike Lee (foto di Karen Di Paola)
Cannes 78, il red carpet di Highest 2 Lowest

L’opera di Lapo Gresleri, il primo a tenere in Italia una Masterclass sul cinema afroamericano, ha avviato uno studio della storia estetica e politica del cinema dei Neri americani, per troppo tempo ignorato dagli storici e dai critici, almeno fino agli anni Ottanta con il successo di Spike Lee. Il libro, diviso in quattro capitoli, ha ‘assimilato’ le tre epoche da cui emergerà un cinema di identità nera – il race film (1912-1948), la blaxploitation (1969-1975) e il nuovo cinema afroamericano con Spike Lee negli anni ’80 – ed è centrato sul cinema nero contemporaneo e le sue tendenze.

Al cuore di un saggio, che assomiglia a un racconto e si legge avidamente, lo scrive a ragione Roy Menarini nella sua prefazione, ci sono soprattutto Barry Jenkins, Jordan Peele e Ryan Coogler, tre autori diversi che mettono ‘in forma’ la questione nera ma sembrano aver trovato una formula ideale che gli permette di realizzare un cinema al tempo stesso politico e commerciale, militante e divertente, rivolto in primo luogo a un pubblico nero ma allo stesso tempo consensuale, che supera ampiamente i confini di una comunità. Gresleri scorre le rispettive filmografie e un cinema dell’America post razziale, che continua a porre la questione razziale al centro delle sue preoccupazioni.

Affrontare il tema del razzismo attraverso il genere horror (Get Out, Sinners), fantastico (Nope), mumblecore (Medicine for Melancholy) o sportivo (Creed) è più semplice ed efficace. Il messaggio politico arriva prima cavalcando un West dove abbiamo sempre dato per scontato che esistessero solo cowboy bianchi o salendo su un ring con un pugile nero che accede allo statuto di campione senza per forza evocare la lotta contro il razzismo.

© 2022 UNIVERSAL STUDIOS. All Rights Reserved.
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Daniel Kaluuya in Nope, written and directed by Jordan Peele.

Le pagine di Gresleri arrivano fino ai ‘peccatori’ di Ryan Coogler, interpretati dallo stesso Michael B. Jordan che riesce nell’impresa perigliosa con una doppia dose di carisma e di talento, includendo i documentari, decisamente più frontali nell’affrontare la questione della discriminazione razziale negli Stati Uniti. Nella fiction invece l’approccio più comune consiste nel riprendere vecchie forme hollywoodiane (la saga di Rocky e i supereroi Marvel ma pure Star Wars e Superman) dove sempre più spesso i neri non interpretano più ruoli da “neri”.

È l’eredità cinematografica dell’era Obama, ci ricorda l’autore, che ha segnato tematicamente e ideologicamente il cinema nero degli ultimi anni. Uno dei capitoli più appassionanti affronta l’intersezione tra black cinema e letteratura afroamericana, tra Barry Jenkins e Colson Whitehead (La ferrovia sotterranea), “narratore d’America” che ha firmato un’implacabile parabola della condizione afroamericana passata e presente. Le “immagini nere contano” recita il titolo e ridanno ‘colore’ ai grandi miti americani, rovesciando il punto di vista bianco sulla storia maiuscola. Un libro da leggere con urgenza per comprendere la complessità dell’America e attraversare il (secondo) mandato Trump con una nota di speranza.