In principio fu Charlot inserviente di banca a sognare di salvare la bella Edna da una rapina. Poi arrivarono Furore, Furto alla banca d’Inghilterra, I soliti ignoti, La banda degli onesti e la variante Operazione San Gennaro, Mary Poppins (“Finché la Banca d'Inghilterra sta in piedi, l’Inghilterra sta in piedi. Se crolla la Banca d’Inghilterra, crolla l’Inghilterra!”), Gangster StoryIl mucchio selvaggio e Woody Allen cleptomane in Prendi i soldi e scappa. Il cinema da sempre coccola ladruncoli e criminali che assaltano la cassa, depositi e tesori bancari (Leonardo DiCaprio in Prova a prendermi, o Sean Connery in Entrapment). Visto da fuori, l’istituto di credito è predatorio, interessato solo ad estorcere e ammassare banconote. E per questo da svaligiare. “Cos'è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?”, diceva Bertolt Brecht

Già il rooseveltiano Frank Capra, però, aveva intuito che la situazione è un po’ più complessa: La vita è meravigliosa confronta finanzieri avidi e altruisti, lo sprezzante Potter e la Bailey Costruzioni e Mutui. Lo ribadì Welles in Quarto potere, pietra angolare della dialettica cinema-finanza, con i suoi banchieri ambigui, impasto di bene e male, come Charles Kane.

Dopo i Settanta, però, il cinema presagisce il collasso: i fratelli Duke in Una poltrona per due ci ammoniscono, nella farsa, che la speculazione finanziaria è azzardo individualista, non equa redistribuzione. Cosa di cui si vantano Fox e Gekko nel reaganiano Wall Street di Oliver Stone (1987). “L’avidità è giusta” è il mantra di un Michael Douglas da Oscar. Non tutte “le scalate dei barbari”, però, si fanno solo per denaro: l’inarrestabile e immoralissimo Danny DeVito, azionista con I soldi degli altri, la fa anche per amore, ma comunque mai per la collettività.

A cavallo del Duemila, infatti, il cinema denuncia solo il volto distruttivo della finanza. I doc Inequality for All e Inside Job mostrano gli stessi disastri sociali della liberalizzazione anni Ottanta che avevano notano, senza ribellarsi, Stanley Tucci, Kevin Spacey e Jeremy Irons in Margin Call. Se Allen, poi, compatisce i sopravvissuti alla crisi del 2008 (Blue Jasmine), Adam McKay con La grande scommessa s’indigna per la spirale speculativa (replicabile) scoppiata quell’anno in America: tra giustizia inerme, politica complice e mutui immorali (subprime), nonostante la Borsa li ignori e li combatta, pochi visionari investitori (Christian Bale, Ryan Gosling, Brad Pitt) predicono la rovina imminente.

La finanza come un Titanic autocratico, dunque. Quando si inabissa, però, affondando i correntisti, non i borsisti: lo sa bene Curtis Hanson che in Too Big to Fail denuncia governi neoliberisti e stipendi faraonici post crisi per chi causò quella crisi. E il cinema italiano? Fuori dall’heist movie, ha inquadrato soprattutto aziende sul lastrico, imprenditori (spesso padri) al verde o respinti da banche che non prestano né rendono i risparmi: tra i tanti, L’industriale in bancarotta (anche morale) di Giulaino Montaldo, Fabrizio Bentivoglio come Dino Ossola immobiliarista squattrinato ne Il capitale umano, Remo Girone nel ruolo del proprietario fedifrago de Il gioiellino di Andrea Molaioli fino a Cento domeniche di e con Antonio Albanese.