Piovono mucche. Inizia così, nel modo più stravagante possibile, Un Cuento Chino, bella sorpresa del concorso romano. C'è una barchetta di legno e una coppia di cinesi innamorati e una scena in sospensione, nel tempo e sul lago. Il quadro è kitsch, l'effetto flou, il romanticismo patinato. La svolta inaudita: all'improvviso dal cielo piomba sulla barca - e sulla sfortunata donna - una mucca. Tragedia. E risate. Chiusa parentesi (per ora). Ci spostiamo a Buenos Aires ed entriamo nella vita piatta e brutalmente alienata di Roberto (Ricardo Darin), un uomo sulla cinquantina tutto casa e bottega (è il proprietario di un ferramenta). Monotonia quotidiana, sguardo fisso e sornione, tendenza al monologo. Roberto è routine ed esilio volontario. Unico passatempo: il ritaglio dei fogli di giornale delle notizie più incredibili dal mondo (una di queste fa riferimento alla tragedia dell'incipit). Possibile distrazione: le attenzioni di Mari (Muriel Santa Ana), sorella di uno dei suoi pochi amici, ma Roberto nicchia e si defila. La sua vita tranquilla ha comunque le ore contate. Finisce quando s'imbatte in un povero disgraziato - un cinese che è stato derubato da un tassista davanti ai suoi occhi (Huang Sheng Huang) - solo come lui e alla disperata ricerca di qualcuno a Buenos Aires. Non ha un soldo e non consce una sola parola di spagnolo. Roberto vorrebbe far finta di niente, ma non può. Decide di aiutarlo. Un aiuto a tempo, poi fuori dalle scatole. Non immaginando che alla fine sarà proprio lui il vero bisognoso di soccorso.
Brillante parabola sull'universale bisogno dell'altro, Un cuento chino di Sebastian Borensztein è una delle cose migliori viste in competizione. Già successo in patria, il film nasconde dietro il suo incedere lento e catatonico - speculare al modus vivendi del protagonista - la propria natura dissacrante, giocando di contrasto tra il sobrio resoconto del quotidiano e i siparietti surreali che ricostruiscono le cronache dall'assurdo collezionate da Roberto (e che Roberto immagina di vivere in prima persona). Ma la voglia di graffiare non si trattiene nemmeno nei confronti della società argentina, di cui stigmatizza - sempre con tono bonario - chiusure e ottusità.
Sarebbe sbagliato però descrivere il film alla stregua di una satira sociale: Borenzstein fa commedia umana, non inventa nulla - le gag sfruttano la straordinaria mimica degli attori, il contrasto tra i caratteri, lo scarto continuo tra azione e reazione, l'incomprensione linguistica - e ottiene il massimo dal minimismo drammaturgico e di messa in scena. Pedina l'assurdo ma ci trova un senso. E porta a casa una doppia morale, una da regalare al pubblico - ci si salva sempre insieme - e l'altra al cinema: ricco non per l'abbondanza dei mezzi, ma grazie alla saggia parsimonia dei suoi interpreti.