È il 2014 quando Avant que de tout perdre, un cortometraggio francese diretto da un giovane attore al debutto da regista, si ritrova candidato all’Oscar. Dura circa mezz’ora: c’è un bambino che marina la scuola e c’è una ragazzina che piange aspettando un autobus. E poi c’è una donna che prende entrambi e li porta nel parcheggio di un ipermercato. Tra i tre c’è un legame, anzi il legame: quella donna ha deciso di lasciare il marito violento e sta pianificando la fuga con i figli. E se in quel parcheggio ci fosse anche l’uomo dal quale stanno scappando?

La tensione è quasi insostenibile ed è difficile rimanere immuni al portato emotivo della storia. Ci riescono, tuttavia, quelli dei Cahiers du Cinéma: per loro si tratta di una truffa, con una suspense meccanica e un passo da tv movie. Poco male: il corto – che non vince l’Oscar ma, insomma, che importa? – fa il giro del mondo e rivela il talento di Xavier Legrand, fino a quel momento apprezzato teatrante formatosi al Conservatoire national supérieur d’art dramatique e visto poco o niente sul grande schermo.

L’esperienza costituisce il viatico per l’approdo al lungo. Che espande, amplifica, approfondisce proprio quel corto. Legrand è predestinato a stupire il mondo: nel 2017, L’affido viene subito selezionato alla Mostra di Venezia in Concorso (sezione che non ospita spesso opere prime), e vince il Leone del Futuro per l’esordio e addirittura il Leone d’Argento per la regia. Per la giuria presieduta da Annette Bening è un’indicazione fortissima: puntare sul trentottenne astro nascente francese preferendolo a venerati maestri del calibro di Paul Schrader, Frederick Wiseman, Abdellatif Kechiche o Hirokazu Kore’eda. Non un azzardo, magari una scommessa, forse una responsabilità: anche a questo servono, i festival, no?

un colpo al cuore

Così nasce un autore: in patria, L’affido ottiene il César al miglior film, il Lumiére e il Louis-Delluc per l’esordio e, a livello mondiale, il box office supera i 4 milioni di dollari. Come Avant que de tout perdre, è una vicenda devastante sulla violenza contro donne rese vulnerabili anche dalle carenze dello Stato e, di conseguenza, figli che subiscono la crudeltà dentro le mura domestiche. Legrand aderisce totalmente allo sguardo sgomento del bambino è totale (il piccolo Thomas Gioria spezza il cuore), non risparmia niente in questo implacabile e lancinante dramma su quel che accade dopo la disgregazione di una famiglia, non elude il pericolo del ricatto emotivo, anzi se lo sobbarca proprio per la consapevolezza di affrontare un tema ponderoso.

L'affido
L'affido

L'affido

La regia sconquassa con chirurgica scaltrezza, il minutaggio è essenziale (un’ora e mezza secca senza esclusioni di colpi), la tragedia privata sconfina nel thriller sociale, la catabasi rifiuta i codici del “film dossier” e del “segue dibattito”, le interpretazioni scuotono (Denis Menochet è spaventoso nella bestialità, Léa Drucker rifugge l’autocommiserazione).

Sei anni dopo, con una pandemia nel mezzo, Legrand torna con L’erede, che conferma quanto per un regista l’opera seconda sia la più ostica delle sfide: i principali festival europei lo ignorano, l’anteprima mondiale è al comunque blasonato San Sebastián del 2023 (la kermesse spagnola che si svolge poche settimane dopo quella veneziana…), l’uscita in sala tarda un po’, la critica si divide. Che è successo al maestro nascente?

È il titolo a dirci molto: il concetto di eredità, di ciò che ci viene lasciato da chi se ne va, di quel che resta malgrado noi. Facile pensare che l’erede sia anzitutto lui, Legrand, che sembra riflettere anche su quanto possa essere pesante non disattendere le aspettative altrui. Come protagonista (alter ego?) elegge un giovane stilista appena subentrato al suo mentore, il direttore di una nota maison appena scomparso, che nel défilé dell’incipit (a spirale: la simbologia è lampante) accusa subito un malore. Potrebbe essere un attacco di panico, ma prima vuole capire se c’entra una patologia cardiaca, magari legata all’ictus capitato al padre qualche tempo prima.

I rapporti sono nulli (tant’è che ha scelto un nome d’arte, per tagliare anche anagraficamente i rapporti con il paterno), informarsi su qualche malattia ereditaria può essere un pretesto per risentirsi, solo che, guarda un po’, il genitore muore all’improvviso e il figlio, in un momento decisivo per l’avvenire professionale (esiste altro al di là del lavoro?), deve volare dalla Francia al freddo Québec, occuparsi del servizio funebre, fare i conti con il passato e con un caro estinto con cui non voleva avere niente a che fare.

L'erede
L'erede

L'erede

l’eredità dei mentori

Ispirato al romanzo L’Ascendant di Alexandre Postel, L’erede conferma la capacità del regista di montare la tensione, attingendo a mani basse al cinema di genere: una casa piena di segreti, le porte che si aprono sull’orrore, la paranoia verso chi sembra nascondere qualcosa, una svolta che non lascia scampo.

Legrand ama Claude Chabrol e Michael Haneke e non è un caso che Il buio nella mente e La pianista siano tra i suoi film del cuore: sonda con precisione le zone d’ombra della ragione, la tossicità dei legami di sangue, il thriller come chiave d’accesso alla realtà. Il quebecchiano Marc-André Grondin, in completo tour de force, si muove tra i residui di Edipo, Oreste e Amleto, il suo corpo via via sempre più spaesato (il disagio in un luogo ostile che si svela inaspettatamente affine ai non-detti) e provato (la salute precaria) si fa testimone di quella classicità che si riverbera nella contemporaneità.

Da uomo consapevole dell’impatto sociale del gesto artistico, Legrand elude il film a tesi per ragionare concretamente su come la violenza possa diventare una tassa di successione, sul male che può essere trasmesso come una proprietà di padre in figlio. Come nel più stremante L’affido, anche al centro di questo apologo implacabile c’è il patriarcato che investe anche coloro che se ne sentono esenti (e chi non può immaginare cosa alberghi oltre la maschera della quotidianità). E tutto si definisce nei dieci minuti finali, tra i più sconcertanti visti di recente sul grande schermo. A volte i grandi festival servono a scoprire nuovi autori, a volte a ricordarci che le loro selezioni non sono infallibili.