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Jan Gunnar Røise e Thorbjørn Harr in Sex
Di cosa parliamo quando parliamo di sesso? D’amore, forse. E anche di sogni. Forse non è un caso che la trilogia di Dag Johan Haugerud, Sex Dreams Love, si apra proprio con il capitolo dedicato al sesso (ma è l’ultimo a uscire nelle sale italiane, grazie a Wanted Cinema). È il segno di un palinsesto: l’esplorazione del desiderio nella Oslo contemporanea non può che irradiarsi da quella parola-mondo capace di mettere in dialogo il romantico e l’osceno, il carnale e l’onirico.
E da subito, sin dalle prime scene, Sex si configura come una dichiarazione d’intenti, del film singolo e dell’intero progetto: nell’epoca delle immagini che si accumulano e bastano a se stesse, Haugerud preferisce la restituzione attraverso l’atto del narrare, dove la pratica del vedere si esalta nel suo essere non-visibile. Perché la questione è proprio nel dicibile. In quello che gli uomini non dicono. Di norma, perlomeno.


Jan Gunnar Røise e Thorbjørn Harr in Sex
(Motlys)Sono maschi che sfidano se stessi, i protagonisti di Sex, che mettono in discussione convenzioni sociali e stereotipi di genere quando non possono fare a meno di confessare – anzi: confessarsi, il che è ancora più importante – l’indicibile. Che ha a che fare con la sostanza di cui sono fatti sogni e con i sogni che prendono sostanza. Un processo di rivelazione – e, va da sé, di scoperta di sé – che pare ancor più rilevante dacché i due non sono intellettuali né sembrano abituati ad ascoltarsi: sono maschi semplici e pratici, di mezz’età, fanno un mestiere umile (ancorché simbolico: gli spazzacamini), si conoscono perché colleghi ma sempre un po’ fermi – per consuetudine o pudore – sulla superficie di un ordinario cameratismo.
Uno di loro, serenamente sposato con prole, rivela all’amico di aver consumato con un altro uomo: un incontro casuale, non cercato né anelato, ma il dubbio di essere omosessuale o bisessuale non lo sfiora, tantomeno quello sull’infedeltà coniugale. Si sente talmente “innocente” e “immune” da confidarlo alla moglie: ovviamente il matrimonio entra in crisi.
L’altro, invece, racconta all’amico di essere perseguitato da un sogno ricorrente, in cui viene percepito come una donna coinvolta in una relazione erotica con David Bowie: la moglie è comprensiva, il figlio adolescente gli viene incontro, un nuovo corso è possibile. Al contrario del primo, è consapevole del turbamento: possibile che il suo inconscio gli stia dicendo qualcosa che il conscio non aveva mai considerato, che la sua identità possa essere in qualche modo influenzata dallo sguardo altrui?
Intellettuale dei sentimenti, umorista che non elude il trauma (c’è chi, riflettendo su Love, ha tirato in ballo Woody Allen, ma forse c’è un’evocazione di Paul Mazurski), narratore rohmeriano che nei particolari coglie l’opportunità di scavare nella profondità delle cose e negli abissi delle persone, Haugerud configura qui il suo trattato filosofico ed esistenziale sulla relazione dialettica tra l’uomo e lo spazio (non casualmente, per motivi di lavoro, capita che i personaggi guardino Oslo dall’alto).


Theo Dahl, Nasrin Khusrawi e Thorbjørn Harr in Sex
(Motlys)Un ragionamento poi completato con la piccola corale mista di Love (uomini e donne, etero e queer, tradizionalisti e app addicted) e con l’esplorazione delle tre generazioni femminili di Dreams (l’impatto del desiderio che prescinde l’anagrafe e il vissuto). Con Sex fa spettacolo ricorrendo al minimalismo, eleva la complessità del tema attraverso la semplicità del gesto, decostruisce la mascolinità come se lavorasse all’interno di uno dei tanti cantieri che affollano la città. Si affida a Thorbjørn Harr e Jan Gunnar Røise per restituire lo stupore e la paura di due maschi colti alla sprovvista e delega alla direttrice della fotografia Cecilie Semec il compito di offrire un’immagine morbida e distensiva che comunque non cela il tumulto interiore.
Come tutti i personaggi della trilogia, anche i protagonisti di Sex parlano, parlano, parlano (ma non si parlano addosso: gli scandinavi non lo fanno, evidentemente): Haugerud sa che l’azione risiede proprio nella parola, che dire una cosa e darle un nome equivale a una presa di coscienza, che possedere non vuol dire necessariamente capire. Perciò la sua è una trilogia non solo seducente e avvincente, ma anche inaspettatamente universale, perché il lessico trascende la lingua e il riflesso di ognuno si riverbera nello spaccato della società norvegese, un popolo così quieto e in apparenza emancipato che affronta le conseguenze, gli effetti, i contraccolpi dei sentimenti e di ciò che gira attorno.
Presentato nella sezione Panorama di Berlino 2024, ha vinto l’Europa Cinemas Label: allo stesso festival, un anno dopo, Haugerud ha ottenuto l’Orso d’Oro con Dreams. Chiusura di un cerchio (nel mezzo, un po’ in sordina, Love è passato alla Mostra di Venezia).