Non si offenderà il bravo Daniel Hendler se per inquadrare Un cabo suelto partiamo, seppur per contrasto, da un paragone illustre. I primi minuti infatti hanno un sapore distintamente coeniano: al confine tra Argentina e Uruguay un uomo vestito da poliziotto – ma che forse non lo è – è inseguito da altri due in divisa che lo vogliono morto. Si rifugia in un chiosco di formaggi dove il proprietario, un vecchio hippy che l’ha preso in simpatia, lo rifocilla coi suoi prodotti e lo nasconde agli inseguitori.

Mettici lo humour surreale del tono e saremmo perfettamente dentro i Coen più conciliati con l’umanità: quelli di Lebowski e dell’idillio domestico di Fargo, dove il caos folle di un mondo in preda all’Assurdo si arresta nel rifugio dell’amore di coppia o di una filosofica bromance.

Tempo però di palesare il suo schema narrativo che, senza perdere di utilità, il paragone coi maestri (nord)americani diventa sempre meno una filiazione, e sempre più qualcosa di simile a un negativo. Sì perchè quel primo incontro con la carità del Prossimo (Mercedes, come il nome di una delle città di confine attraversate) si rivelerà non essere affatto un caso fortuito.

Ogni volta che il nostro eroe incontra qualcuno infatti - la ragazza di un autogrill, un avvocato, un pibe che gioca a pallone in strada – qualcosa nella sua bonomia e nella gentilezza con cui si pone li spinge ad aiutarlo, riparandolo dagli aguzzini e crucialmente separandosi dai propri beni terreni: cibo, mate, soldi, vestiti, strumenti musicali.

Un cabo suelto
Un cabo suelto

Un cabo suelto

Nella critica si abusa spesso il termine parabola, ma stavolta è davvero l’unico appropriato. Solo che laddove le parabole coeniane sono quelle di eroi sballottati dal destino in un universo gelido, quella di Hendler in Un cabo suelto è (se non cristiana in senso stretto) la parabola di un umanista incallito, disposto a credere fino in fondo al nucleo di altruismo che abita il cuore umano.

A rendere irresistibile il film – di un ottimismo totale senza mai risultare ingenuo - è però l’insistenza sulla natura attiva del suo eroe, che non trova semplicemente persone buone, ma le sa suscitare, portandole dalla sua parte con un pragmatismo ineffabile, che non ha nulla di falso pur avendo tutto di interessato. È qui che la saggezza di Un cabo suelto, road movie di confine dalla pacatezza e ironia inconfondibilmente latine, scopre la sua grande lezione.

Che è anche ovviamente una lezione politica su come dovrebbero funzionare, da un lato e dall’altro, le dinamiche di immigrazione: un pacifico, stimolante, giustamente interessato scambio di favori tra il calore di una nuova patria, nuove prospettive, nuove usanze (il mate che in Uruguay non si fa come in Argentina) in cambio di forze fresche, civiltà, competenze (per esempio saper fare il formaggio).

L’eroe di Hendler non è l’Assassino di De Andrè, che merita pane e vino solo perché ha “sete e fame”. Dà sempre qualcosa in cambio, e nel farlo dice qualcosa di molto sottile sui rapporti umani. Al di là di ottimismo e pessimismo, bontà e cattiveria, che al confronto sono cose da bambin