Stephen King non è sempre stato Stephen King. Per un periodo ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Richard Bachman. Oltre a L’uomo in fuga, tra gli altri ha pubblicato come Bachman anche Ossessione e La lunga marcia. L’obiettivo era capire quale fosse il reale motivo del successo legato ai suoi romanzi: la firma o il contenuto del libro. Quando è stato scoperto, ha commentato che Bachman era morto di cancro.

In ogni caso la stella di King continua a brillare. È in corso la serie prequel di It, dal titolo It – Welcome to Derry. Al cinema sono arrivati lo stupendo The Life of Chuck con Tom Hiddleston e The Long Walk (da noi ancora senza data di uscita). Adesso è il momento di The Running Man, appunto L’uomo in fuga, diretto da Edgar Wright. Nel 1987 era stata realizzata una prima versione con Arnold Schwarzenegger, L’implacabile. In questo caso Wright è più fedele al libro, anche perché King è produttore esecutivo. Si dice che il maestro del brivido lo abbia scritto in meno di tre giorni, concentrandosi solo sull’azione e togliendo ogni orpello.

Ma forse proprio per questo Wright sembra imbavagliato. Non ha la libertà di sperimentare, di mettere in scena una sua versione dell’action che non sia convenzionale. Eppure il suo talento in materia lo aveva già dimostrato: Baby Driver univa musica e inseguimenti con una tecnica da manuale. Anche Last Night in Soho, con tutti i suoi limiti, sottolineava una voglia di osare fuori dal comune. Senza andare a scomodare la Trilogia del Cornetto (ormai cult), Wright è un autore sorprendete, ma con The Running Man resta bloccato nei canoni del filone.

Crea un picchiaduro ipertrofico, dalla durata eccessiva (133 minuti), in cui troppi personaggi passano senza lasciare il segno. L’impianto è quello del videogioco, con sfide sempre più difficili da superare. Ormai la saga di Hunger Games ha sdoganato il format. Siamo in un futuro distopico. Il mondo è governato da una dittatura, la divisione tra classi è feroce. Per divertire il pubblico è stato istituito un nuovo gioco sulla scia dei gladiatori: il Running Man. Tre reietti devono scappare dai Cacciatori. Più sopravvivono e uccidono i loro inseguitori, più aumenta la ricompensa. Fino a quando non raggiungono il cimitero.

Il protagonista è molto arrabbiato, non riesce a mantenere la famiglia, la figlia è malata e non sa come curarla. Così si iscrive al Running Man, e scatena il finimondo. La nota morale, contro l’America di oggi, resta sullo sfondo. A vincere sono le logiche che regolano lo share, la condanna è contro la comunicazione che si fa propaganda. Il resto è un pandemonio dinamitardo, dove a meritare una menzione speciale è Glen Powell. È uno dei volti più interessanti della Hollywood di oggi, si destreggia tra i generi, lavora anche con i migliori (come Richard Linklater), e in The Running Man sa anche essere uno spaccone dal cuore d’oro. Vedremo dove potrà arrivare.