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The Life of Chuck
“Io sono immenso. Io contengo moltitudini” non è solo uno dei versi più celebri di Walt Whitman, ma anche l’asse su cui si edifica The Life of Chuck, il racconto di Stephen King contenuto nell’antologia Se scorre il sangue. E che Mike Flanagan, ormai affezionato traduttore per immagini del leggendario scrittore (Il gioco di Gerald e Doctor Sleep), ha fedelmente portato sul grande schermo in un film che è già la sintesi di una carriera ben lieta di “contenere moltitudini”.
Punta di diamante dell’ondata di elevated horror per la capacità di fondere elementi soprannaturali e precipitato emotivo, tensione allegorica e consapevolezza d’esser parte di una tradizione, Flanagan lavora sulla coralità anche se si concentra su un singolo, costruisce ponti verso i paesaggi interiori per interpretare gli orizzonti collettivi, ripete modelli per estendere universi. E crede nel cinema come luogo in cui confrontarsi con i fantasmi, metabolizzare le ossessioni, elaborare i traumi.
The Life of Chuck si articola in tre frammenti dove, a mano a mano, si scoprono legami e corrispondenze che trascendono lo spazio e il tempo, costituendo il ritratto organico del protagonista.


The Life of Chuck
Nel primo atto un certo Charles Krantz (detto, appunto, Chuck) appare su enigmatici cartelloni pubblicitari celebrativi, mentre la fine di Internet inaugura una serie di catastrofi che annuncia l’imminente fine del mondo e fa riavvicinare persone che si sono allontanate (Chiwetel Ejiofor, professore malinconico, e Karen Gillan, infermiera abbattuta, ne sono gli effettivi protagonisti). Nel secondo, Chuck, fuori sede per un convengo di contabili, si lascia trasportare dalla musica di una batterista ambulante e danza tra la gioia della folla (un momento destinato a fissare il film nella memoria anche grazie alla commovente interpretazione di Tom Hiddleston). Nel terzo, torniamo alla sua infanzia, trascorsa nella casa vittoriana degli amabili nonni (Mark Hamill e Mia Sara, struggenti), sormontata da una cupola misteriosamente preclusa al bambino.
Più adorabilmente confuso che effettivamente confusionario, The Life of Chuck è un caldo apologo pieno di fiducia, introspettivo e contemplativo, quasi un omaggio nascosto alla memoria e alla lezione di Stand by Me, che conserva la voce narrante (in originale è di Nick Offerman) per accompagnare – e orientare – lo spettatore dentro una macchina che “contiene moltitudini”.


The Life of Chuck
Un coming of age à rebours per entrare nel cuore delle vite di uomini non illustri attraverso la concezione del calendario cosmico secondo cui la cronologia dell’intero universo può essere misurata un unico anno terrestre, il mistero della cosmologia e la grazia delle cose minime, la fantascienza per interrogare l’apocalisse e la concretezza di un’incredibile ode alla matematica.
Flanagan sa che c’è una possibilità di horror in ogni immagine mancante, che l’ansia per la fine è il palinsesto di tutte le narrazioni distopiche del nostro tempo, che al di là delle porte chiuse c’è sempre qualcosa che i nostri occhi non possono sostenere. Ma lo slittamento sta nel ritorno al cinema metafisico del dopoguerra, nella fuga verso il musical classico per accedere a un mondo dove muoversi in bilico tra reale e onirico (dal consumo compulsivo delle videocassette di Fascino, Cantando sotto la pioggia e Cabaret alla messa in scena di un cliché del teen movie come il ballo studentesco con relativi momenti epifanici e preparazione), nella malinconia di una classicità ormai replicabile solo come dispositivo nostalgico.