Dimenticate l'originale ottocentesco di Hans Christian Andersen. Nella moderna rilettura del coreano Kim Yong-yu la fiaba cede il posto all'incubo, la magia all'ossessione. Fin dallo straniante incipit, protagoniste sono però sempre loro: le scarpette rosse del titolo. Due donne a una stazione della metropolitana. L'eco dei passi sulla banchina deserta. Una lite furibonda per un paio di scarpe incustodite e poi il tragico epilogo: una di loro finisce straziata dal treno in arrivo. Pregi, limiti e suggestioni del film sono già tutte in questi primi minuti. La struttura narrativa è  involuta al punto da risultare spesso criptica e zoppicante. Se la trama soffre passaggi di poco fluidi, a sopperire è però un'estetica soverchiante. Fotografia virata, colori lividi, primissimi piani: dove la sceneggiatura non arriva, l'emozione passa tutta per le immagini. Le stesse fisionomie della protagonista e della figlioletta Tae-soo parlano dell'incubo in cui entrambe sono catapultate: un paio di scarpette assassine, che condannano chi le indossa a misteriose amputazioni degli arti inferiori. Ben lontano dallo splatter, il sangue che scorre a fiumi si fa invece quasi pennellata, nella tavolozza acida fotografata da Kim Tae-kyung. Il risultato è un microcosmo opprimente e ansiogeno, come soltanto i migliori horror estremo-orientali sono in grado di ricreare.