Quiete violenta come intensità dolorosamente concentrata, pudicamente trattenuta, di un sentimento sempre estremo e non sfacciatamente esibito, ma educatamente e spietatamente esplorato. Quindi educazione (sentimentale, certo, e altoborghese, come quella di Lorenzo ne La ragazza con la valigia o privilegiata: Carlo in Estate violenta, Daniele in La prima notte di quiete), e spietatezza (l’orgoglio della greca Eftikia che non si vuole prostituta degli occupanti italiani ne Le soldatesse, o quello di Vanina, che gelidamente si nega a Daniele e da sempre “traviata”), l’esser tenaci e miti a un tempo (come il cristico leader anticoloniale in Seduto alla sua destra).

C’è abbastanza spazio per ossimori in una filmografia pur ridotta per numero di titoli e tutti, però, intensi, come quella di Valerio Zurlini, scomparso quarant’anni fa, nell’ottobre 1982. Autore altrimenti mai legato, in sede critica, a una formula, a una definizione di poetica specifica del suo cinema, e che non fosse quella di “autore da rivalutare, ingiustamente eclissato” da altri più celebrati contemporanei. Qualcuno di cui insomma si riconosce la grandezza, ma che deve comunque restare un passo indietro agli altri maestri coevi, magari perché non altrettanto incisivo nella memoria e costume collettivo, non altrettanto seminale, e, al più, oggetto di cicliche e oziose rivalutazioni e mai di effettive riflessioni.

Valerio Zurlini (Cinecittà Luce - Webphoto)
Valerio Zurlini (Cinecittà Luce - Webphoto)
Valerio Zurlini (Cinecittà Luce - Webphoto)

E certamente fu, di altri, meno fortunato da un punto di vista produttivo: i progetti da lui scritti e inseguiti venivano poi affidati alla regia di altri (suo, per esempio, il soggetto di Guendalina diretto da Lattuada; suo avrebbe dovuto essere Il giardino dei Finzi Contini), o alcuni, i più audaci (Il sole nero, su un uomo che veglia sul cadavere della donna amata e da lui uccisa), restavano solo su carta, per l’inerzia di un sistema già allora incapace di rischiare, di investire a lungo termine e fare davvero utili.

Ma un cinema quietamente violento poteva non dare abbastanza garanzie. Perché apparentemente esitante, come un ossimoro appunto: l’intensità della passione gentile di Lorenzo in La ragazza con la valigia che – letteralmente – si spende in tutto per Aida (Claudia Cardinale) e paga con la sua generosità per l’altrui malizia, ha il volto imberbe e delicato di Jacques Perrin (scomparso quest’anno, come un altro volto zurliniano: Jean-Louis Trintignant).

Oppure, è un cinema troppo isolato anche nel suo “impegno”? Le soldatesse resta l’unico film a smentire il luogo comune “italiani brava gente” (unitamente al romanzo di Ugo Pirro dal quale è tratto, e a Tempo di uccidere di Flaiano) e Seduto alla sua destra è il solo terzomondista, pervaso di qualcosa che somiglia a una teologia della liberazione in versione africana e ispirato a Lumumba.

All’opposto, anche, è un cinema imperdonabilmente intimista, quando i più (in sede critica) si sarebbero attesi rassicurazioni ideologiche: Carlo, in Estate violenta, nel settembre ‘43 lascia Roberta e decide forse per la lotta partigiana non perché antifascista, ma perché conta “il decidere” in se stesso, diventar così adulto e insieme realizzare simbolicamente un parricidio (il genitore è un gerarca che l’ha tenuto lontano dalla guerra). Come se gli umanisti (e a questa schiera apparteneva il regista) avessero bisogno di bandiere.

Jean-Louis Trintignant, Eleonora Rossi Drago in Estate violenta (Webphoto)
Jean-Louis Trintignant, Eleonora Rossi Drago in Estate violenta (Webphoto)
Jean-Louis Trintignant, Eleonora Rossi Drago in Estate violenta (Webphoto)

Zurlini non poteva ad altri nostrani maestri assimilarsi, accostarsi (parla chiaro, in questo senso, il Leone d’oro vinto da Cronaca familiare nel ’62 ex aequo con L’infanzia di Ivan), e non imitava nessuno (mentre, curiosamente, sono universalmente noti i riferimenti di altri maestri coevi), al netto delle attestazioni di stima che in più occasioni tributava ad Antonioni. Riconoscimento che può sorprendere quanti vedono nel regista ferrarese “solo” il maestro di stile romanzesco, e Zurlini “solo” sentimentale.

Ma fare un cinema d’atmosfere non esclude fare un cinema di personaggi e sentimenti. Zurlini c’è riuscito, e in maniera così tanto personale e originale da risultare inassimilabile a categorie, fortunatamente irripetibile, come si conviene ai maestri.

Oppure, quello di Zurlini, è un’altra forma del paradosso diderotiano, del non si va a teatro per veder attori versare lacrime, ma semmai per piangerne di proprie. Zurlini non è melodrammatico, ma commovente senza essere in sé commosso, quietamente “violento”. Ne La prima notte di quiete, i protagonisti visitano la Madonna del Parto di Piero della Francesca. Pittore le cui scene sappiamo tutt’altro che turbolente, anche quando si tratti di battaglie, flagellazioni, angeli in volo, ecc., eppure capaci di muovere, noi che le guardiamo, alla meraviglia, dalla loro statuaria immobilità, come consegnasse qualcosa di umano per sempre, che resta transtorico.

Jacques Perrin ne Il deserto dei tartari (Webphoto)
Jacques Perrin ne Il deserto dei tartari (Webphoto)
Jacques Perrin ne Il deserto dei tartari (Webphoto)

Zurlini ha saputo fare lo stesso, carezzando in lenti movimenti di macchina i luoghi, rendendoli mai visti per la prima volta, ma sempre rivisitati da affetti e memorie (le strade di Cronaca familiare, ma già banchine e binari del corto documentario La stazione), consegnando le pose dei suoi personaggi a geometrico, metafisico rigore (Il deserto dei tartari, soprattutto) o con sincera pietas aderendo ai loro volti.

Perché è un cinema della compassione, il suo (che in questo non ha eguali in Italia, neppure tra autori più identificati con motivi apertamente religiosi), del patire cristianamente insieme (fino all’estremo: Luca, quasi dostoevskijano idiota, che “perdona” e soffre con l’uxoricida Martino ne Il sole nero), dello spendersi fino all’ultimo, anche in modo distruttivo o autodistruttivo per chi si ama: Lorenzo per Aida, Carlo per Roberta, Daniele per Vanina o Monica, sporcando in tutti i casi l’abito borghese della buona famiglia, pagando con ogni mezzo i debiti che si sente di avere (come fa anche il tenente Tomas Milian con le donne greche). Con quiete violenta, spietata perché illimitata e assoluta pietà. Incompreso perché unico, alla modernità di nessun altro assimilabile. Un gigante, insomma.