Finora non si era mai sentito parlare di Dibbuk (sono scatole di legno che non andrebbero aperte in nessun caso, diciamo così) né assistito - almeno su grande schermo - a un esorcismo compiuto da un rabbino (dal figlio, per la precisione). Ne va dato atto agli sceneggiatori (Juliet Snowden & Stiles White) che, ispirandosi molto vagamente a una storia riportata dal Los Angeles Times, hanno scritto The Possession.
Peccato che le novità finiscano qui e che il film, prodotto non senza una ragione da Sam Raimi (scommettiamo sul botto al box office?), si riveli dopo soli cinque minuti un rimpasto demoniaco de L'esorcista+Il presagio+Il sesto senso.
Anche qui l'orrore si insinua in famiglia, ma per riunirla: Clyde (Jeffrey Dean Morgan) e Stephanie (Kyra Sedgwick) in effetti sono freschi di divorzio quando la loro figlia più piccola (Natasha Calis) inizia a stranirsi, ossessionata da una scatola di legno acquistata a un mercatino dell'usato. Non bastasse il comportamento assai losco della bambina, si verificano spiacevoli incidenti che coinvolgono chiunque vi abbia a che fare. A quel punto il sospetto che la scatola sia una specie di Vaso di Pandora viene anche ai genitori (riavvicinatisi nel frattempo), con tutto il codazzo di eventi prevedibili che una vicenda del genere comporta.
Lo script tenta un diversivo focalizzandosi sulla figura del padre - che è anche l'unica star del progetto visti i trascorsi in Grey's Anatomy - e sul suo tentativo di riconquistare l'amore filiale (e non solo). La scelta però finisce per privilegiare il versante melodrammatico a scapito di quello orrorifico, con la figura della figlia ridotta a puro oggettuale della trama, terminale in cui convergono tanto le mire del demonio quanto le strategie di (ex) moglie e marito di ricostruire l'unità organico-emozionale della famiglia.
Ideologicamente scoperto e vagamente destrorso - che a morire siano prima una donna di colore e poi un ebreo americano sarà una coincidenza, però dà adito... - The Possession delude proprio dove non dovrebbe: far spavento. Peccato, perché la sinistramente angelica Natasha Calis avrebbe avuto tutte le carte in regola per reggere e dispensare tensione. Bisogna ammettere che la regia di Ole Bornedal (Nightwatch) non è da buttare, che l'ambientazione al confine con il Canada trasmette un'inquietante esattezza urbanistica, che l'operazione fa di necessità virtù, ovviando alla penuria di soldi - e quindi di effetti speciali - come si faceva una volta, creando atmosfere e un minimo di angoscia pineale.
Anche così però manca qualcosa. D'altra parte il letargo esistenziale dell'horror non comincia certo oggi. Con un mondo già ansiogeno di suo, il genere sembra aver abdicato da tempo alla sua mission originaria - quella di produrre domande e scalfire certezze - per ritagliarsi un inedito spazio di utilità sociale: rassicurare lo spettatore, fornendogli paure gestibili. Il che spiega la sua coazione a ripetersi, ma non la giustifica. Avanti il prossimo.