È difficile pensare a un videogioco come a un possibile veicolo per creare una serie tv, perché nonostante necessiti di una certa durata per essere giocato in modo completo, anzi una durata considerata spesso è indicata come indice di qualità e ricchezza del prodotto (la durata media di un videogioco nella sua storia principale è di 9 ore circa, The Last of Us ne dura 15 e mezza), ci viene spontaneo associare il videogame al film, al mezzo cinematografico. Questo per una questione di costi, e il cinema più ricco di una produzione tv solitamente, di spettacolo, ma anche di forma essendo un gioco basato sull’azione, sulla ripetizione delle azioni.

Se però il videogioco è The Last of Us, questo discorso si complica, perché quella che Naughty Dog ha diffuso nel 2013 è un’opera ludica di grande complessità in cui l’azione aveva un peso relativo rispetto ai personaggi, alle loro scelte, al panorama umano che ne veniva fuori. Quindi la decisione di HBO di accogliere il progetto di Craig Mazin e Neil Druckmann (sceneggiatore e direttore creativo del gioco) a realizzarne una serie si è rivelata vincente e bagnata da un grande successo e riscontro critico, esattamente come accaduto al videogame.

In onda su Sky Atlantic e sulla piattaforma streaming NOW, la serie racconta il viaggio di due personaggi in un’umanità sconvolta e distrutta da un fungo, il cordyceps, mutato geneticamente a causa del riscaldamento globale, che rende gli umani dei morti viventi: Joel (Pedro Pascal) è sopravvissuto all’apocalisse, ma ha perso la figlia il giorno dell’inizio della fine, uccisa da un poliziotto troppo zelante; Ellie (Bella Ramsey) è una ragazza che è stata morsa da un non-morto, ma che non ne è rimasta infetta. I due dovranno attraversare gli Stati Uniti, o ciò che ne resta, per portare la giovane nell’unico posto in cui possano studiarla per farne un vaccino, ma non dovranno solo affrontare gli uomini tramutati in mostri, saranno soprattutto gli umani a intralciare il loro cammino: un governo divenuto autoritario, organizzazioni ribelli o semplicemente persone che si sono isolate e hanno deciso di proteggere il loro isolamento da ogni tipo di ingerenza esterna.

Pedro Pascal e Anna Torv in The Last of Us
Pedro Pascal e Anna Torv in The Last of Us

Pedro Pascal e Anna Torv in The Last of Us

Prima stagione da 9 episodi, con una seconda già confermata, la serie scritta dagli stessi ideatori e diretta, oltre che da loro, da registi come Jasmila Zbanic (Quo vadis, Aida?) e Ali Abbasi (Border, Holy Spider) parte da premesse horror-fantascientifiche per diventare un dramma umanista, in cui la componente di azione e avventura è subordinata alle questioni emotive, psicologiche ed esistenziali della vicenda, che si allargano sotto traccia a più ampie sfumature politiche: Mazin e Druckmann hanno cominciato a scrivere e realizzare la serie nel 2020, potendo sfruttare la maggiore vicinanza dei futuri spettatori ai temi della pandemia, dell’isolamento e del confinamento, potendo fa risuonare meglio certe sotto-trame e rendendo l’empatia con chi avrebbe guardato più diretta.

Pedro Pascal in The Last of Us
Pedro Pascal in The Last of Us

Pedro Pascal in The Last of Us

Molti dei nove episodi non si concentrano in modo esclusivo sui due protagonisti, anzi sembrano allargare e stressare le maglie del classico racconto on the road ogni tappa, un incontro - mettendo da parte Ellie e Joel in più di un’occasione per dare rilievo ai comprimari, a cui dedicare magari episodi interi, perché quei comprimari rappresentano una precisa sfumatura dell’essere umano che si confronta con l’abisso e deve trovare la forza per resistere, in sé o negli altri, ed è questo il tema centrale della serie e del videogioco, cioè come ricalibriamo il nostro bisogno dell’altro, l’essere sociale dell’animale uomo, quando l’altro non c’è o potrebbe ucciderci da un momento all’altro?

Mazin e Druckmann affrontano così le diverse modalità di relazione umana, la reinvenzione o l’annullamento della socialità in una post-società che è uno specchio deforme, ma piuttosto fedele, della nostra, sfruttando al meglio la verticalità degli episodi televisivi e la loro messa in onda settimanale: alcuni degli episodi più belli della serie sono il terzo (Molto, molto tempo) che racconta la storia di Bill e Frank, una coppia di lupi solitaria che insieme ha trovato il modo e la forza di superare la disperazione fino a che una malattia neuro-degenerativa cambia il loro rapporto, utilizzando la commozione con grandissimo pudore e altrettanta precisione di scrittura; oppure il quinto (Resistere e sopravvivere) che fa intrecciare il percorso di Ellie e Joel con quello di Henry e Sam, due fratelli in fuga dai ribelli che vogliono vendicarsi del maggiore dei due e che danno vita a un ritratto di fratellanza toccante. Anche i personaggi che non hanno un episodio dedicato, per esempio Tess (Anna Torv) o Kathleen (Melanie Lynskey), hanno dalla loro parte ricchezza di scrittura e completezza emotiva, sembrano caratteri di un romanzo, perché è questo lo spirito di base con cui Druckmann ha scritto il videogioco, il principio sul quale ha fondato l’intera esperienza di quel prodotto, ossia fare in modo che l’interazione dello spettatore serva ad approfondire e creare i rapporti umani, le azioni che si compiono servono a scoprire e ad ampliare gli intrecci umani, anziché a vincere duelli o sopravvivere.

In questo senso, The Last of Us fa un’opera di adattamento, a detta di quasi tutti gli esperti, praticamente perfetta, perché rispetta il racconto e i personaggi, perché mantiene l’andamento del racconto e i suoi centri ma rendendoli televisivi, perché amplia ciò che in un gioco va ridotto e viceversa.

La grande riuscita della serie però sta nella densità della sua scrittura e nella profondità della sua regia, nella caratterizzazione dei personaggi e nel lavoro degli attori, nel tono dolente e crepuscolare, nel tocco sentimentale che isola lo spettacolo in pochi frammenti i quali, proprio per la loro rarità, risuonano potenti.