In questa America incupita perché dominata da chi non sa immaginare un futuro per tutti ma solo per alcuni, così immalinconita poiché attraversata da tante solitudini che in fondo sognano solo qualcuno da amare, Celine Song fa teoria e pratica della commedia romantica. E prende tutti ma proprio tutti i cliché del genere per farne l’uso che compete a un’autrice colta e raffinata come dimostrava il film che l’ha rivelata, quel Past Lives che traduceva l’esperienza autobiografica in una narrazione universale, lavorando sul concetto coreano di “in-yun” secondo cui le persone possono essere legate da legami profondi che trascendono le vite attuali.

Anche in Material Love (il cui budget è di poco superiore al precedente, 20 milioni contro i 12 dell’opera prima, ma con tre star in campo) c’è un rapporto con un passato perduto nel tempo, una cornice preistorica che apre e chiude il film per interrogarsi sull’origine di quell’unione che oggi conosciamo come matrimonio. È un’evocazione che potrebbe sembrare posticcia perlomeno nell’esecuzione ma che ci dice molto della visione di un’autrice consapevole che tutti abbiamo qualcosa alle spalle che ci ha reso ciò che siamo.

Celine Song, Dakota Johnson e Chris Evans sul set di Material Love
Celine Song, Dakota Johnson e Chris Evans sul set di Material Love
Dakota Johnson, Chris Evans and director Celine Song on the set of The Materialists. (Atsushi Nishijima)

Compreso un film come Material Love che, sulla carta, guarda alla tradizione americana della rom-com: che altro pensare di fronte a un triangolo sentimentale tra tre sex symbol, tutti interpreti di “sistema” legati all’universo dei cinecomic, chi l’altro ieri con successo (Chris Evans, Capitan America) e chi oggi (Pedro Pascal, il nuovo Mr. Fantastic) e chi come incidente di percorso (Dakota Johnson, Madame Web)? Ma Song fa qualcosa in più: riposiziona la commedia nel suo tempo e riflette sui sentimenti all’altezza della società che li produce o li subisce. All’edonismo delle possibilità preferisce l’ottimismo della volontà, alle leggi del mercato quelle dell’intelligenza emotiva, all’incanto del più ottuso lieto fine il disincanto della fine che meritiamo.

Il suo secondo triangolo scaleno non è solo un omaggio alla lezione di Elaine May e all’umore della New Hollywood, allo spirito di Nora Ephron e ai sorrisi dietro al pianto, alle commedie del ri-matrimonio nell’epoca in cui a sposarsi sono sempre gli altri (niente spoiler, ma la prima apparizione di Evans, notevole nella sua distinguibile e sfuggente indifferenza, è una dichiarazione d’intenti con “birra e Coca cola”).

Ma Material Love – con un titolo originale ben più preciso e acido: Materialists – è anche o soprattutto un sorprendente racconto contro un capitalismo che profila le persone per controllarne l’agenda e gestirne i sentimenti, contro la fiera dei match tra cuori solitari (Johnson interpreta una matchmaker, che applica lo schema dell’agenzia matrimoniale nell’età di Tinder), contro il classismo di una élite tanto gentile e tanto cinica, perfino contro l’epifania degli unicorni, nome in codice degli uomini unici e perfetti che in quanto unici e perfetti corrompono un apparato umano fondato sui difetti, sulle compensazioni, sui compromessi.

Dakota Johnson e Pedro Pascal in Material Love
Dakota Johnson e Pedro Pascal in Material Love
Dakota Johnson and Pedro Pascal on the set of The Materialists. (Atsushi Nishijima)

Tutti, nella piccola ronde newyorkese di Material Love, stanno dissimulando, fingendo, ingannando anzitutto se stessi. Il personaggio di Johnson, punta di diamante dell’agenzia a cui è approdata dopo aver messo da parte il sogno della recitazione, si proclama fredda e materialista, ostenta l’interesse per la ricchezza e razionalizza ogni desiderio: eppure, cercando per conto degli altri ciò che pensa di non aver trovato per sé, non fa altro che andare in scena, diventando di fatto l’attrice che ha deciso di non essere per sopravvivere alla giungla del capitale.

Nel ruolo dell’uomo perfetto che vuole conquistare l’ambiziosa e smaliziata Johnson, Pascal – che in questa fase storica è l’inevitabile corpo delegato a impersonare un maschio non patriarcale – rappresenta tutte le contraddizioni dei “ricchi buoni”: fa il lavoro di chi non vuole fare capire che lavoro faccia davvero (la finanza), aggiorna la nobiltà dell’amor cortese all’era della proprietà privata e confonde il costo della merce con il valore degli individui. Evans, così programmaticamente sgualcito, crede ancora nel sogno del teatro, continua a fare l’attore nei teatri off forse solo perché una volta qualcuno gli ha detto che è bravo (che bello quando chi scrive sa come colpire al cuore), ha votato Bernie (Sanders) e vive ancora con coinquilini senza arte né parte.

Dakota Johson e Chris Evans in Material Love
Dakota Johson e Chris Evans in Material Love

Dakota Johson e Chris Evans in Material Love

È tutto prevedibile, in Material Love, ma è clamorosa la capacità di questa commedia adulta e strutturata che prende di petto il dramma, che sia l’effetto collaterale più grave nella liquidità dei legami creati in laboratorio (uno slittamento di tono così incauto da metterci in guardia sul vero tema del film: l’accettazione delle cose per ciò che sono, quasi un’evocazione di certe commedie a cavallo tra i Trenta e i Quaranta) o la rivelazione più ridicola che funziona da epifania nel ricordarci che si ama davvero solo chi si conosce anche se non si sa bene perché.

E poi ci sono i colori di un eterno autunno newyorkese (la fotografia di Shabier Kirchner rivendica lo status indie) e le canzoni di Neil Diamond, Cat Stevens e Francoise Hardy a darci la misura di un mondo più compiaciuto del gusto rétro che semplicemente nostalgico. Con inquadrature pronte per essere condivise sui social, dialoghi e monologhi costruiti per divertire e commuovere ma soprattutto essere citati in futuro, Material Love ha tutto ma proprio tutto per essere sottovalutato e minimizzato: amen.