Doveva succedere, che da davanti passasse dietro alla macchina da presa, forte del “praticantato d’autore” con Reichardt, Assayas, Larrain, Cronenberg. Cannes 78, sezione di pregio Un Certain Regard (nel novero anche gli esordi di Scarlett Johansson e Harry Dickinson), accoglie l’opera prima di Kristen Stewart, The Chronology of Water, che adatta l’eterodosso memoir (2011) di Lidia Yuknavitch (in Italia La cronologia dell'acqua, edito da Nottetempo).

Le pagine annoverano, meglio, inabissano genere, sessualità, lutto, abuso, allorché Lidia (Imogen Poots) cresce con un padre violento e una madre incapace di proteggerla: una borsa di studio per il nuoto l’allontanerà dalla famiglia nefasta, una perdita la piegherà, sesso e alcol catalizzeranno, o forse no, la via di fuga, finché il nuoto, e altro ancora, daranno un nuovo tempo e un nuovo logos alla sua vita.

Stewart ne ha fatto, appena letto, il suo livre de chevet, e la trasposizione ha assecondato la prosa liquida, l’identità fluida, il vulnus tracimante, il (re)flusso di coscienza di Yuknavitch, e pure troppo: detto senza mezzi termini, si fatica a seguire questa Cronologia.

Non si empatizza, più di tanto almeno, con Lidia, anche perché la narrazione ondivaga, stilosetta e artatamente arthouse sembra levare consistenza al dolore: la vocetta di Poots non aiuta, e nemmeno la regia di Stewart, abbastanza irritante per presunzione e lassismo.

La trasformazione del trauma – incesto compreso - in arte è commendevole, l’esorcizzazione degli abusi nel nuoto e nella scrittura preziosa, ma il vagare per queste acque, laddove corpo natante e corpo letterario dovrebbero coincidere, trova insieme derive e risacche, rischiando sensibilmente di mandare a fondo il debutto di Stewart, che prendendo da Yuknavitch sceglie la paratassi passivo-aggressiva e il peana al proprio Io. Che lascia l’acqua che trova.