Esistono i contesti. Tatami, un film che di per sé avrebbe una sua rilevanza per l’inedita – e audace – collaborazione tra un regista israeliano (Guy Nattiv) e un’attrice iraniana per la prima volta anche dietro la macchina da presa (Zar Amir Ebrahimi, vincitrice a Cannes 2022 per Holy Spider), arriva in Italia in due passaggi, prima con un’uscita evento nella giornata delle donne (8 marzo) e poi in programmazione ordinaria dal 4 aprile. La logica c’è: le donne sono al centro della scena (anzi, del ring), le azioni rivelano un coraggio che può essere d’ispirazione, il mondo nel quale si muovono non è dei migliori.

Ma c’è anche un altro contesto: presentato a Venezia 2023 nella sezione Orizzonti senza ottenere premi, il film alza la voce mentre divampa l’eterno conflitto tra Israele e Palestina, e ci ricorda così che, sì, il cinema può rappresentare un’occasione di incontro, cooperazione, magari riconciliazione. Certo, il sentimento è analogo ma i contesti contano, appunto: in Tatami si parla dell’Iran, di come il governo autoritario ha impedito ai suoi cittadini di incontrare gli israeliani nell’ambito di eventi internazionali.

Ambientato durante i campionati mondiali di judo a Tbilisi, il film è un incessante e tesissimo dramma che usa gli strumenti del film sportivo per raccontare una vicenda ad alto contenuto politico, in cui la judoka iraniana Leila (Arienne Mandi, americana di origini cilene e iraniane: prestazione muscolare e sensibile) e la sua allenatrice Maryam (la stessa Ebrahimi) ricevono un ultimatum da parte della Repubblica Islamica: Leila deve fingere un infortunio e perdere la gara, evitando di avanzare troppo nel torneo e di rischiare di soccombere alla campionessa israeliana in carica. Se non dovesse accettare l’ordine, sarebbe marchiata come traditrice dello Stato: ovviamente lei non ha alcuna intenzione di sottostare al diktat.

Tatami
Tatami

Tatami

(Juda Khatia Psuturi)

Il bel bianco e nero di Todd Martin, tanto definito quanto contrastato, acuisce l’intensità di Tatami, quasi scontornando la vicenda della cronaca per restituirla al cinema, così da farne racconto esemplare capace di trascendere le circostanze specifiche. E ne enfatizza la dimensione claustrofobica, non solo grazie a una regia che segue il ritmo di una gara ma anche per l’aspect ratio e per il montaggio serrato di Yuval Orr che tesse i vari punti di vista, evocando tanto il cul-de-sac diplomatico quanto il senso di oppressione fisico ed emotivo.

Le linee sono due: da una parte c’è una narrazione più spettacolare incardinata sulla judoka, che riguarda il desiderio di vittoria, l’ambizione di imporsi, la conquista del primo oro (le riprese in azione sono piuttosto esaltanti, Mandi è generosa e furente e l’immagine dall’alto del suo corpo disteso sul tappeto bianco è di forte impatto); dall’altra, attraverso lo sguardo dell’allenatrice orgogliosa ma sempre più sotto pressione e dominata da un conflitto che ha radici profonde (è un’ex atleta, forse anche lei ha dovuto rinunciare a qualcosa e se ne duole), c’è l’atto d’accusa contro le ingerenze del potere e le imposizioni del regime.

A tratti avvincente e a tratti didascalica, questa coproduzione tra Stati Uniti e Georgia, parlata in inglese e farsi, è soprattutto l’allegoria di una presa di posizione: lo sport come spazio in cui misurare gli equilibri diplomatici, le donne che devono sottostare agli ordini di nazioni che non meritano le loro imprese, le gare che non sono mai solo vicende personali ma hanno sempre una temperatura politica.