PHOTO
Il Nowruz in Iran è la festa tradizionale che celebra il nuovo anno, la fine del calendario persiano e ad esso sono connessi diversi cerimoniali. Mentre in un piatto il sabzeh (germogli delle lenticchie) lentamente sviluppa le verdi foglioline, una giovane spiega alla sua bambina come dovrà apparecchiare il tavolo seguendo i millenari dettami religiosi e cosa pronuncerà durante il rito del fuoco in cui dovranno saltare un falò come rappresentazione della luce che sconfigge le tenebre. “Il mio pallore è tuo, il tuo rossore è mio”, sono queste le parole da enunciare nell’allegorica pratica di rinnovamento. Un’amorevole scena di materno insegnamento, spensierata e gioiosa, se non fosse che le due si ritrovano a proferire tali precetti all’interno delle mura di un rifugio per donne.
È il 1995, in Australia, l’iraniana Shayda con la figlia Mona sono riuscite a fuggire dal marito e padre violento Hossein, futuro medico, nascondendosi nella comunità al femminile per soggetti maltrattati che avrebbe permesso loro di allontanarsi nell’immediato dalle barbarie psicologiche e fisiche dell’uomo. E nel frattempo che la donna cerca di costruire la causa per il divorzio sfruttando la possibilità di non doverla dibattere in patria, dove non avrebbe alcuna chance di riuscita date le sfavorevoli regole sull’affidamento e la separazione, gli incubi che lui possa far deflagrare il sogno di una vita libera si formalizzano con prepotenza.
Ad ogni piccola presa di coscienza e sprazzi di libero arbitrio corrisponde il tentativo degli altri di porre fine ad un’iniziativa ritenuta intollerabile per le inclementi maglie della società persiana. Anche se lontane, la pressione proveniente dalla seppur esigua cerchia dei concittadini, non disposti a perdonare la diserzione al matrimonio e l’ennesima conseguenza della diaspora iraniana, è invalidante. Perfino le imploranti telefonate della madre cercano di minimizzare i conclamati abusi perché Hossein “in fondo è un buon padre”.
Al fuori tirannico e paranoide però si alterna un dentro fatto di protezione in cui si cerca di strutturare una normalità fatta da autentici attimi di consapevolezza di sé e spensieratezza investendo nel legame familiare l’unica fonte di salvezza. Mantenendo vive le proprie radici culturali, con i suoi simboli di rinascita e ottimismo, diventa un modo per loro di ritrovare un senso di quotidianità, di identità e di forza interiore, nonostante le sfide e le pressioni esterne.
Sì, perché malgrado tutto Shayda rimane saldamente ancorata alla cultura della terra natia innescando un interessante cortocircuito tra fascinazione folkloristica e l'incomprensibile irragionevolezza del paese d'origine. Frutto di avvenimenti autobiografici, l’esordio di Noora Niasari è una delicata narrazione personale nella quale tensione emotiva e mentale cooperano egregiamente nel mantenere lo svolgimento lineare e allo stesso tempo intrigante.
Soprassedendo su alcuni elementi convenzionali che smorzano l'intenzione, il film è di attuale universalità. Gli appassionati primi piani degli sguardi inquieti, pregni di un raggiante barlume di speranza, catturano il racconto di una donna che è tragicamente il racconto di molte donne e giratasi durante le recenti proteste contro le leggi discriminatorie, questa storia di affrancamento diviene ulteriore dimostrazione che l’esigenza di cambiamento non può più essere ignorata.