“Le persone attraenti non dovrebbero morire mai”. Forse non avrà lunga vita, ma Enea è un film attraente. Contemporaneo, privato e pubblico. E grande, tanto nel coraggio quanto nella resistenza. Licenziando l’opera seconda, il trentunenne Pietro Castellitto ricorda Marco Bellocchio, nell’analisi della famiglia e - vi ricordate L’ora di religione con Sergio Castellitto? - la bestemmia rivelatrice; ricorda Paolo Sorrentino, nell’icasticità dei dialoghi e nella grande bellezza romana, ma sopra tutto ricorda sé stesso: è un autore, detiene una poetica e uno stile, entrambi afferenti al qui e ora epidermico, ma con licenza di profondità – sì, introspezione.

Gira come se ci fosse un domani nel nostro cinema, sorpassando a destra gli altri italiani in concorso a Venezia: corsia d’emergenza, l’emergenza altrui.

Dopo l’esordio I predatori e il libro Gli iperborei, entrambi qui assai presenti, fa sembrare persino facile l’opera, la seconda, tradizionalmente più difficile. Si incarica dell’eponimo Enea, un (anti)eroe in assenza di epica e, in fondo, di narrazione tout court. Non esistono i giorni, latitano i fatti, ci si muove per risacca su nuove spiagge, Renato Zero, che poi nuove non sono e per luoghi così comuni da sconfessare, appunto, qualsiasi movimento.

Non c’è mito, non c’è Icaro, ma Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, alias Tutti fenomeni), aviatore appena battezzato: insieme spacceranno coca per via aerea, nella consapevolezza spuria che “Le ragazze belle rendono la vita leggera come un treno di nuvole”. Parole al vento, gli stupefacenti pure, e la famiglia: padre (Sergio Castellitto, da quanto non era così bravo?) che spaccia psicanalisi, madre (Chiara Noschese) che spaccia libri in tv, fratello sedicenne che le piglia a scuola e dorme tra i genitori. La cosmogonia di Enea è quella di Roma: “Ci sta una bocca sopra questa città che è pronta a mangiarci tutti e se non ci facciamo amicizia ci sputa come uvetta”. Niente panettone, piuttosto capitone, con un Natale bellocchianamente apparecchiato per far memoria familiare: “Siamo una famiglia di birilli”, e quanti ne cadranno?

Con Lorenzo Mieli (The Apartment) produce - e si sente più che si vede - Luca Guadagnino, ma Castellitto si chiama col suo nome, tesse fili tra I predatori e questo che son gabbiani e pistole inceppate, e si fa flusso lucidissimo di incoscienza, hybris degradata, appendice criminale. I pensieri sono stupendi, “i voti sono la droga che ci danno per non avere opinioni”, lo yoga intima di “rilassarsi fino a diventare un lenzuolo”, i padri “non pretendono più niente”, le filippine storiche se ne vanno, Marycell, e tornano a Manila.

Roma e notte, rum e cocaina, 300 chili con il 5%, o forse il 7%, da mettersi in tasca, Enea e Valentino. Il boss (Adamo Dionisi) è maestro di pensiero: “Sta cazzo di depressione fa un sacco di vittime”, “Per diventare vecchi ci vuole solo l'amore”, “La vita dura finché sei giovane, poi inizia un'altra cosa”.

C’è chi fa sesso con i salmoni, chi muore, chi “l’unico modo per fare i conti con la rabbia è vincere”, ma nulla tiene per queste onde, per quelle edite spiagge, per chi vuole scappare dalla fica e chi altro rimanervi: è la notte al termine del viaggio, e l’insonnia è antifrasi, l’uguale il contrario, la libertà handicap, e viceversa. “Ma cosa comincia quando la fica finisce?”, ci si chiede tra Enea, Valentino e il direttore spauracchio incarnato da Giorgio Montanini, e se “il potere rende stupidi e grassi” sicuri che la potenza, avocata a sé dall’antieroe, richieda “generosità e sacrificio”?

Niccolò Contessa musica, i gabbiani colpiscono, gli aerei pure, ci sarebbe anche l’amore – lei è Benedetta Porcaroli, e Castellitto la filma con gli occhi dell’amore – e dunque la morte, che si consuma nell’indifferenza postmoraviana e nell’ascensione chagalliana: amore, famiglia e, sì, quanta indifferenza.

Castellitto è più figlio di quanto si vorrebbe, più profondo di quanto spererebbe, bravo quanto crede di essere: “che cazzo leggi a fare se non guardi alla vita?”, rimpallato dai genitori finzionali ma non fittizi, diviene dispositivo poetico, intendimento prospettico. “Spiagge già vissute amate e poi perdute in questa azzurrità”, palme cadenti, maggiordomi assassini e 300 kg di madonna, tutto frullato in due ore di cinema che miscelano parodia e pudicizia, depressione e Tevere Country Club, auricolari e “son tutte puttane”, hype e spleen. Letteralmente: tanta roba.

Castellitto gira da semidio, l’ammazzatina meglio di tanti registi devoti al crime, le feste meglio di Sorrentino. Perché Pietro, trentuno anni, non vuole solo partecipare ai fallimenti, ma vuole avere il potere di festeggiarli. Una danza macabra: stessa spiaggia, stesso morire.