Terra di confine, terra di nessuno. Il verde vorrebbe speranza, ma il “confine verde” tra Bielorussia e Polonia richiama piuttosto fede, ché si prega Allah, e carità, dispensata dagli attivisti.

In carnet Poeti dall'Inferno e Io e Beethoven, la polacca Agnieszka Holland torna alle atmosfere umane e disumane di Europa Europa (1990) con The Green Border (Zielona Granica), in Concorso a Venezia 80.

Fotografia in bianco e nero di Tomasz Naumiuk, Holland piazza la camera proprio sul confine, inquadrando il rimbalzo di migranti tra guardie di frontiera bielorusse e polacche.

Provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, uomini, donne e bambini cercano di raggiungere l’Unione Europea via aerea dalla Turchia alla Bielorussia e poi di qui alla Polonia, ma il piano di viaggio si rivelerà addirittura più infame di quello via mare: perché l’accoglienza bielorussa è tutto fuorché disinteressata, essendo questi richiedenti asilo “armi di Lukašėnko e Putin, sono proiettili viventi”. Il dittatore bielorusso li utilizzerebbe per provocare l’Europa, per recapitare oltre confine un problema, un “pacco”, alimentando una crisi geopolitica cinicamente architettata: attirati sul “confine verde” da una propaganda che promette un facile passaggio per l’UE, i derelitti vengono incessantemente rimpallati da Polonia e Bielorussia e costretti a marcire tra i boschi, patendo freddo, fame, sete e pestaggi delle guardie. Tutto è tragicamente possibile: affogare nella palude, essere gettati, una donna incinta, al di sopra del filo spinato rimanendovi impigliati, scomparire per sempre.

Scortata dai co-sceneggiatori Maciej Pisuk e Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko, Holland segue e intreccia le vite, e non solo quelle, di una famiglia siriana con il padre ammutito dall’Isis, il nonno credente e piagato, la moglie e tre figli; Jan, giovane guardia polacca che aspetta un figlio dalla compagna e degli orrori sul confine non è solo testimone, ma artefice; la psicologa Julia, da poco attivista, chiamata presto a decidere (fin) quanto si possa aiutare; un’insegnante di inglese proveniente dall’Afghanistan, con un trolley a perdere e chissà che altro.

Tutti pedine, tutti intrappolati, in un gioco ignominiosamente più grande di loro, in cui la persona è mero espediente politico, corpo contundente suo malgrado e, persino, ordigno biologico. “Non ha alcun senso impegnarsi nell’arte se non si lotta per quelle voci, se non si lotta per porre domande su questioni importanti, dolorose, a volte irrisolvibili, che ci mettono di fronte a scelte drammatiche. Questa è esattamente la situazione in atto al confine tra Polonia e Bielorussia”, dice Holland, che ovviamente non ha potuto contare sul sostegno del proprio governo, cui per bocca dei suoi personaggi non le manda a dire, per finanziare il film.

Nelle due ore e mezzo di durata le facilonerie emotive, le tensioni ricattatorie, i piegamenti a tesi e le semplificazioni ideologiche lampeggiano, mentre il didascalismo è una costante, al pari dell’esemplarità, ma non paiono onestamente ricorrenze, ovvero reati, perseguibili: la mole del problema umanitario non disdegna l’accetta, ché siamo dalle parti del cinema d’impegno civile, dell’arte di scopo. Senza infamia, con più di qualche merito. Anche, e sopra tutto, nel tentativo non solo di illustrare, ma capire. Già, si fa presto a dire Europa, ma quante volte bisogna – bell’epilogo – morirne?