Due soldati, l’uno di fronte all’altro, sullo stesso fronte. Attorno, tutto intorno, il deserto. Due bandiere, uguali e contrarie, due modi diversi – diversi? – di stare al mondo: l’uno pelato, l’altro capellone; l’uno scatolette e distintivo, l’altro chef e bohème. Di due uno, forse, e non solo destino? Di due fazioni una identità, di una demarcazione l’assurdo, ché il confine non tiene – il confino non tiene.

In cartellone alla Settimana della Critica, è l’esordio del britannico classe 1990 Oscar Hudson, un tipino fino che ha abbandonato l’etnografia per la produzione audiovisiva, con clip e corti valsi un Emmy e tanta roba: Straight Circle, questo il titolo, ha la circolarità della creatività, ma non la quadratura del contenimento, ovvero della misura. Stroppia, insomma, Hudson, nei tempi – 20’ almeno da tagliare – e nei modi, con qualche iterazione, cincischiamento, sottolineatura, allegoria che ci saremmo, noi e pure il film, risparmiati. Eppure, il deserto è dei tartari, e la detartrasi umana, troppo umana: io è un altro, e viceversa.

Luke e Elliot Tittensor per interpreti, così diversi, così progressivamente identici, e la simmetria del desiderio che converge oltre la guerra, dentro la stessa casa, la stessa branda, lo stesso destino: se io, appunto, è un altro, se l’inferno sono gli altri, si va per il ridotto dolente, per la riduzione ad nihilum, o che altro?

Hudson la prende con ossessione e sarcasmo, alla bisogna a ridere, per virtù a riflettere, e – con una buona attitudine derivativa o, se preferite, sincretica… – perfeziona un pamphlet antibellicista, caricaturale per dimessa armatura, umanista per corpi contundenti, post-buzzatiano per interposto sosia. Occhio, che A24, Neon o, sicuro, MUBI potrebbero salire a bordo, e capiremmo benissimo.

Eppure, se i due Tittensor fanno molto e bene, vorremmo meno, minuti, enfasi ed extravaganza: della botte, solo per stavolta, facciamo a meno, ma un colpo al cerchio ci sta tutto.