Immagini stranianti di macachi in uno zoo. Scorcio ravvicinatissimo su un volto femminile che si intuisce appena. Di nuovo i macachi. Labbra che parlano in fuori sync di violenze familiari, amori morbosi, microcosmi alterati. C'è tutto nel folgorante incipit di Sangue. Sperimentazione, visionarietà, ambizione. Tutto tranne la misura e tutto troppo spinto agli eccessi, perché l'esordiente De Rienzo riesca a padroneggiarlo come dovrebbe. La materia è incandescente e lui dimostra non solo coraggio ma anche buone intuizioni. La forma prende però presto il sopravvento, la storia sembra sfuggirgli di mano. Il marchio autoriale che pareva scorgersi nei primi minuti si perde in una storia a due claustrofobica, che pare abbandonata alla deriva di una sceneggiatura invisibile. Fulcro della vicenda è il rapporto alterato e carnale fra Iuri e Stella. Lui, Elio Germano, è figlio di una violenza carnale e di una madre assente. Lei, Emanuela Barilozzi, condivide con lui il sangue materno e l'unico vero legame col mondo esterno. Premesse disturbanti ma potentissime, che si perdono però in pellegrinaggi senza senso fra centri sociali, rave party, corse con la polizia. Non ci sono cliché e la dimensione onirica è riuscita. In questo De Rienzo si dimostra padrone del suo racconto. Ha però ragione nelle note di regia, quando dice che i difetti di Sangue sono i suoi difetti. Troppa foga, troppe ingenuità, scarso rigore.