Spesso e volentieri sono le prime persone che vediamo quando veniamo al mondo. E le ultime prima di andarcene. Cinque anni fa, durante l’emergenza Covid, li chiamavamo “angeli”, “eroi”.

Ed è così che la svizzera Petra Volpe ha deciso di titolare il suo terzo lungometraggio, Heldin (eroina, in tedesco), già presentato allo scorso Festival di Berlino (Special Gala), ora dal 20 agosto (anteprime il 18) nelle nostre sale con il titolo italiano (in linea con quello internazionale) L’ultimo turno.

L’eroina in questione è Floria (la tedesca Leonie Benesch, esplosa con La sala professori e, ancora una volta, più che brava), infermiera di un ospedale cantonale che lavora con passione e professionalità, cercando di prestare ascolto a tutti i pazienti del suo reparto, sovraffollato e a corto di personale.

Medical drama con i ritmi del thriller, il film della regista elvetica si spoglia di tutti gli orpelli cari a prodotti seriali e iconici (da E.R. a Grey’s Anatomy, passando per Chicago Med fino ad arrivare all’imminente The Pitt), o meglio riesce nel non facile compito di saper mantenere vivido il grado di intrattenimento calibrandolo però alla tematica di urgenza sociale che, sin dall’inizio, ne ha mosso gli intenti.

Sì, perché all’origine della sceneggiatura c’è un dato agghiacciante, rivelato da uno studio condotto dalla società di consulenza PwC, ovvero che entro il 2040 in Svizzera mancheranno circa 40mila infermieri e se il livello di formazione resterà commisurato ai parametri attuali, malgrado l’invecchiamento della popolazione, la domanda di professionisti socio-sanitari non potrà più essere soddisfatta a partire dal 2029. E l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel 2030 mancheranno già circa 13 milioni di infermieri in tutto il mondo.

L’altra fonte d’ispirazione per la realizzazione del film è stato il saggio Unser Beruf ist nicht das Problem. Es sind die Umstände (“Il problema non è la nostra professione, sono le circostanze”) di Madeline Calvelage, ingaggiata poi come consulente per la stesura dello script: scelta felice, insieme a quella dell’attrice protagonista, perché la sensazione costante è quella di ritrovarsi sempre lì, nei corridoi e nelle varie stanze che ospitano i degenti di vario tipo, sempre insieme a Floria che – dall’inizio alla fine di quell’ultimo turno – si ferma solamente una manciata di minuti (forse meno) per riascoltare al telefono la voce della sua bambina.

È un film di rara umanità, questo di Petra Volpe, che non si vergogna di prendere le parti della sua eroina (dalla quale si pretende infallibilità, seppur pedina dentro un sistema moribondo) ma che al tempo stesso sa restituire con credibilità e naturalezza le molteplici sfumature dei vari caratteri che popolano il reparto dove si muove, come una pallina da ping-pong, la protagonista: una giovane madre gravemente malata, un anziano signore che attende con apprensione la sua diagnosi, un uomo che dall’alto della sua assicurazione privata pretenderebbe un trattamento privilegiato, e tanti altri ancora. Oltre, naturalmente, ai familiari dei pazienti, chi sul luogo, chi da remoto (al telefono), chi più educato, e rispettoso, chi meno. 

È quindi anche un film di resistenza, fisica, psicologica, paragonabile alla performance sportiva, un tour de force dove l’infermiera è l’unico soldato in prima linea, trait d’union tra il malato e il medico (che, chissà quando, tornerà per fornire delucidazioni su referti o quant’altro), dove l’imprevisto è sempre lì, in agguato, dietro l’angolo, e dove la morte può arrivare così, dall’altra stanza, senza particolari preavvisi.

Anche lì, in un’altra sequenza che non ha bisogno di chissà quali ulteriori fronzoli, l’empatia di una donna come Floria ci ricorda che può bastare un piccolo gesto per continuare a prendersi cura. Proprio come vuole fare questo film, gesto artistico capace di ricordarci l’importanza di figure – professionali, umane – troppo spesso date per scontate.