La guerra come esperienza immersiva, in tutta la sua brutalità. È questo che racconta Warfare – Tempo di guerra di Alex Garland e Ray Mendoza, in anteprima il 16 e il 17 agosto e poi nelle sale dal 21 con I Wonder Pictures. Una normale ricognizione si trasforma nell’apocalisse, il tempo della storia corrisponde a quello della narrazione. Uno dei mattatori di Warfare è l’attore Taylor John Smith, un talento di cui sentiremo parlare. È di sicuro una delle promesse di Hollywood. “Interpreto un uomo che si trova in una situazione al limite. Si deve confrontare con un mondo in fiamme. Non è un veterano, deve crescere in fretta. È un esempio perfetto di come l’essere umano non sia mia pronto a tale violenza”, spiega Smith. Il film ha vinto il premio per la miglior regia all’ultima edizione del Taormina Film Fest.

Ray Mendoza era un Navy Seal. Com’è stato preparare il film?

Totalizzante. Abbiamo vissuto come una vera squadra. Hanno costruito un campo in cui addestrarci, dove siamo rimasti per settimane. Mangiavamo insieme, dormivamo insieme, eravamo come fratelli. L’obiettivo era creare qualcosa che fosse uguale alla realtà. Tutto doveva essere verosimile: le comunicazioni radio, i movimenti, le tecniche di combattimento. I Navy Seals sono uomini molto coraggiosi, sviluppano delle capacità fuori dal comune. Mi hanno insegnato che non è una questione di muscoli, ma specialmente di testa. È questa la chiave. Mendoza ci ha messo molta della sua esperienza. In un’ora e mezza sono condensati anni di lavoro. Servono almeno trentasei mesi di preparazione per raggiungere il fronte.

E Alex Garland?

Con Mendoza sono complementari. L’uno è la sostanza, l’altro la forma. Ho visto anche Civil War, in IMAX, su uno schermo enorme. Incredibile. Warfare è un film molto attuale. Purtroppo. Non ci si rende mai conto di che cosa significhi andare in guerra. Non esiste alcuna forma di patriottismo, ma un’enorme sofferenza che sfocia in tragedia. Non solo per i soldati, ma anche per i civili. Si tratta della piaga della nostra società.

(c)2023 Michele Cutuli
(c)2023 Michele Cutuli
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Che cos’è per lei il cinema?

Il modo migliore per fuggire da sé stessi, per essere altro. È uno strumento di studio, quasi antropologico. Si incontrano persone che ci accompagneranno per tutta la vita. Ci si interroga anche su quale sia l’impatto delle storie sulla nostra società. Mi sono innamorato del cinema con mia madre. Andavamo nelle videoteche a noleggiare i film. E spesso magari non erano adatti: a undici anni ho visto Il nemico alle porte, che mi aveva colpito molto. Le ritirate, l’assedio. Mia madre mi diceva: “Non è la realtà, però…”. Questa frase mi ha guidato. Nel tempo poi mi sono emozionato con John Q con Denzel Washington, quella forza nell’affrontare la paternità mi commuove. E poi Stand By Me di Rob Reiner. Mi ha cambiato, mi ha fatto maturare.

Lei ha vissuto per tredici anni tra Los Angeles e Miami. Ora è a Nashville, il cuore del capolavoro di Altman.

È vero, è un luogo pieno di musica. Non è una grande città, le emozioni si vivono in modo raccolto. La natura è rigogliosa: i laghi sono fantastici, è il paradiso per chi vuole fare trekking. Ma mi piace tornare a salutare i vecchi amici a Hollywood.

Progetti futuri?

Sto partendo per l’Armenia. Il progetto è un thriller psicologico. È il racconto di un uomo che chiede la mano della sua amata al futuro suocero. Ma non sarà così semplice, è come se The Substance incontrasse Midsommar.