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Resurrection
Si chiama Resurrection, ma per lo spettatore è una Via Crucis. Di Bi Gan ci entusiasmammo (che bella parola, al passato remoto) per Un lungo viaggio nella notte nel 2018 - vi ricordate, più o meno, a metà film si dovevano indossare gli occhialini 3D e letterale si volava!.
Sette anni più tardi, per la nuova intrapresa potremmo aggiornare Verdone: C'è un cinese in coma.
Il suo, ipse dixit, “mostro cinematografico” vaga per un secolo di storia del cinema, e di Cina, con sei sensi - vista, udito, olfatto, gusto, tatto e la mente - a cui né aggiungiamo un settimo, lo sbadiglio nostro. Il precedente era davvero altra cosa, Resurrection è come se fosse antani, una supercazzola nemmeno divertente tra immagini, non ne siamo certi, generate dalla Intelligenza Artificiale e altre, e ne siamo certi, dall'Insipienza Umana.
Tafazzismo ad libitum, sperimentalismo senza limitismo, Resurrection scodella si schermo un futuro post-apocalittico, laddove una donna fa rivivere - parole grosse - un androide raccontandogli la storia della Cina.
Inopinatamente in Concorso, Bi Gan va a tastoni a esplorare i confini tra realtà e immaginazione, (in)perfezionando una stolida e vieppiù ambiziosa odissea sensoriale, laddove fantascienza e poesia, memoria e tecnologia si prendono a braccetto - e, spiace, ci prendono per i fondelli.
Meritorio esordiente nel 2015 con Kaili Blues, giustamente venerato, se no. Idolatrato, per Un lungo viaggio nella notte (2018), il cui piano sequenza 3D di un’ora rimane tra i vertici estetici del Terzo Millennio, con Resurection Bi Gan l'ha fatta fuori dal vaso - e la bellissima e sprecata Shu Qi rincara il disappunto.