James Bond è tornato, ma non è una buona notizia. Almeno per chi, come noi, aveva salutato con soddisfazione, se non entusiasmo, la new entry Daniel Craig nell'inedito Casino Royale, parente lontanissimo del patinato Pierce Brosnan e dei bolsi film che lo ospitavano, perché in delicato e - esistenzialmente - precario equilibrio tra action, ruvido e forsennato, e introspezione psicologica e affettiva, a tal punto che 007 si faceva rubare il cuore da Vesper Lynd (la tagliente Eva Green), seconda volta nella storia bondiana dopo la Tracy di Vincenzo (Diana Rigg) di Al servizio segreto di Sua Maestà (1969).
In questo 22° capitolo, viceversa, di quell'equilibrio non v'è più traccia: ambientato un'ora dopo gli eventi di Casino Royale - Bond viene subito rimproverato da M (Judi Dench, polverosa) per l'uccisione di Le Chiffre - il film drammaturgicamente vi è distante anni luce: il nuovo regista Marc Forster (Monster's Ball e Neverland in carnet) fa rimpiangere il paradossale Casino, perché armonico e omogeneo, del sottovalutato Martin Campbell, rendendosi co-protagonista, a pari merito con gli sceneggiatori Neal Purvis & Robert Wade e Paul Haggis, di un'eterogeneità e difformità poetico-stilistica che alterna alla copia-carbone della saga di Jason Bourne momenti di stasi, che stanno "insieme" come l'acqua e l'olio.
Da un lato, è cinesi parossistica - su tutti, l'inseguimento a Siena durante il Palio tra 007 e un agente traditore - che accelera il ritmo interno alle inquadrature, sforbicia i raccordi sul movimento e rende quasi non intelleggibili gli eventi; dall'altro, si tira il freno a mano repentinamente, concedendo soste forzate a Bond per il ricordo dell'amata-odiata Vesper, le conversazioni amabili - non per gli spettatori - con il Mathis di Giancarlo Giannini, che si presenta con (sic!) Lucrezia Lante della Rovere (medaglia al merito trash) e finisce - giustamente - morto ammazzato in un cassonetto; discutere sui massimi sistemi della vendetta con l'improbabile Camille (Olga Kurylenko, che bisogno c'è della schiena sfregiata?): fornicare "una botta e via" con l'impiegata dell'MI6 Fields (Gemma Arterton, incolore), che - citazione pauperistica di Goldfinger - finirà laccata di petrolio, il tutto supportato da dialoghi didascalici quando non inverosimili - due o tre quelli azzeccati nell'intero film.
Giramondo come non mai nella saga - da Panama al Cile, dall'Italia (Siena, Carrara, Lago di Garda e Fonteblanda) all'Austria, con la base dei Pinewood Studios inglesi - Quantum of Solace finisce per essere davvero apolide, senza una patria, un ubi consistam poetico: peccato capitale, che è l'oscura piovra Quantum - presumibilmente ideata quale upgrade della Spectre - se non un McGuffin piccino, inspiegata perché inspiegabile? E che dire, se non male, della nemesi Dominic Greene (Mathieu Amalric, con probabile disturbi alla tiroide, visti gli occhi fuori dalle orbite...) e del suo farraginoso progetto criminale di siccità coatta?
In tutto questo, Daniel Craig fa un discreto mestiere, mostra pettorali scolpiti, cerca ostinatamente la vendetta, picchia i suoi e continua ad ammazzare gli altri, ma la terra, quella tagliente, burbera e disperata di Casino Royale, gli manca sotto i piedi.
Forse troppo coraggiosa, nonostante il successo al box office globale, quella rivoluzione, il sequel Quantum of Solace è puro attendismo di raccordo, sosta intermedia tra quel recentissimo e aureo passato e un futuro tutto da scoprire, ma su cui pesano già inquietanti timori.