“Sapreste riconoscermi, madre?” si chiede Cecilia, vent’anni tutti trascorsi tra le mura dell’Ospedale della Pietà, il più grande orfanotrofio di Venezia. Le lettere che scrive alla madre mai conosciuta fanno sono il filo su cui si muove Primavera, così come lo erano in Stabat Mater, il romanzo di Tiziano Scarpa all’origine dell’esordio alla regia cinematografica di Damiano Michieletto (in precedenza l’esperimento televisivo Gianni Schicchi), massimo visionario italiano sul fronte dell’opera lirica. Che qui, nella Venezia dei primi del Settecento, inquadra il rapporto tra Cecilia, virtuosa del violino, e il nuovo maestro, il tormentato Antonio Vivaldi.

Il cambio di titolo è sintomatico: dal pur celeberrimo inno sacro a quella che forse è la composizione più nota di Vivaldi (che, giova ricordarlo, colleziona circa sei milioni di ascoltatori mensili su Spotify), in cui il violino solista rappresenta un pastore addormentato. Un risveglio, appunto, per testimoniare lo scossone che il prete rosso porta nell’esistenza della protagonista, sempre sottomessa a un destino scelto da altri, poiché da misteriosa intrattenitrice musicale per platee aristocratiche (il suo volto è protetto da una maschera) è pronta a essere presa in sposa da un nobile molto più grande di lei.

Miko Jarry, Michele Riondino, Tecla Insolia e Andrea Pennacchi in Primavera
Miko Jarry, Michele Riondino, Tecla Insolia e Andrea Pennacchi in Primavera

Miko Jarry, Michele Riondino, Tecla Insolia e Andrea Pennacchi in Primavera

(Andrea Pirrello)

Michieletto mette al centro la musica (“Ci avete dato gli strumenti per maledirvi”) e lascia che le note prendano il posto delle parole per restituire il senso di una rivoluzione interiore, come si nota nel momento panico, en plein air, in cui sembra compiersi il miracolo della Primavera. In un certo senso, se da una parte c’è il percorso di Cecilia, dall’altra c’è quella del regista, e il film sembra anche informarci su Michieletto che scopre le possibilità del cinema, con gli esterni dal cielo alla natura (dai concerti in giardini ai canali attraversati in gondola) a offrire nuove strade a un autore abituato a sviluppare, trasformare, esaltare gli spazi chiusi di una macchina teatrale.

È vero, la location veneta, il periodo limitrofo e il tema generale (la musica come emancipazione e salvezza, punto fermo dell’adattamento firmato da Ludovica Rampoldi) possono far pensare a Gloria!, eppure, se Margherita Vicario accelerava per imporre uno sguardo, Michieletto appare meno protagonista, completamente al servizio di una storia che, sì, può risonare nel presente, ma anche interessato a ritrovare quella Venezia prima della cartolina oleografica con la sporcizia, l’umidità, la foschia di una città eternamente sospesa.

Tecla Insolia e Michele Riondino in Primavera
Tecla Insolia e Michele Riondino in Primavera

Tecla Insolia e Michele Riondino in Primavera

(Kimberley Ross)

E, sì, Tecla Insolia potrebbe scontare l’eco de L’arte della gioia, ma la sua Cecilia è meno disturbante di Modesta, più quieta in un’inquietudine che questa grande attrice sa trasmettere con limpida economia. La stessa che ci mette Michele Riondino, accartocciato in un personaggio straziato dai malanni e dagli affanni, chiamato a incarnare la fatica e l’estasi dell’atto creativo capace di posizionarci nel mondo e annunciarci un cambiamento che non sempre può concretizzarsi fino in fondo.

Solido e pop senza strafare, presentato al Toronto Film Festival, Primavera vanta un bel cast di comprimari (in primis l’ottima Fabrizia Sacchi, l’affidabile Andrea Pennacchi, una Valentina Bellè che lascia il segno nel definire e Stefano Accorsi in partecipazione) ed è forte di valori produttivi impeccabili, dalla fotografia di Daria D'Antonio che si fa tersa nella foschia al montaggio fluido di Walter Fasano, passando per le musiche originali di Fabio Massimo Capogrosso, la scenografia di Gaspare De Pascali, i costumi di Maria Rita Barbera e Gaia Calderone e il suono in presa diretta di Gianluca Scarlata. Ovviamente, annunciato da un lapidario ed evocativo “la musica è finita”, non manca “il messaggio”: forse la musica non servirà a niente, ma proprio per questo può fare tutto.