Si può essere persecutori in tanti modi. C'é l'intruso che s'intrufola nella vita di qualcun altro, e lo segue, lo bracca, lavora ai fianchi accaparrandosi uno spazio non suo. Il questante del metrò, con la sua litania di miseria, durezza e ricatto, e una richiesta d'aiuto per alleviare i vostri sensi di colpa. Ma c'è anche un persecutore più subdolo, qualcuno vicino, che amiamo, il cui affetto non ci sostiene, ma tormenta e logora. Daniel (Romain Duris) - il protagonista di Persécution di Patrice Chereau - è uno di questi. Muratore e cantiere aperto egli stesso, scorza dura e dolore, rabbia persino, dirompente quando infetta le persone che lo circondano: passanti, amici, la donna che ama (Charlotte Gainsbourg). Attorno a lui Chereau (che nel 2005 a Venezia aveva vinto un Leone d'oro speciale con Gabrielle), tesse una tela esilissima di relazioni sofferte, legami incompleti, scambi deficitari. Daniel è vicino a tutti, fa visita persino agli anziani di una casa di riposo, senza toccare nessuno. Sarà l'incontro con uno sconosciuto (Jean Hugues Anglade), che lo pedina e giura di amarlo, a metterlo al muro, costringendolo a fare i conti con se stesso. Processo lento, non lineare. Chereau si prende tutto il tempo necessario per tracciare la sua personale fenomenologia delle passioni. Sono i sussulti interiori dei protagonisti a dettare il ritmo alle immmagini, non viceversa, fedele il regista francese a un'idea di cinema che si accosti agli esseri umani con pudore, curiosità e pazienza. Nell'attesa che una ruga, un'espressione del volto affiori e riveli un dettaglio interiore, impalpabili brandelli di verità. E parole che risuonano come scuse, si ripetono stanche, e poi d'improvviso si accendono e aprono squarci imprevisti su se stessi e su gli altri. Cinema di grande sensibilità, dalle tonalità bluastre, fissato alla profondità della scrittura e alla bravura degli attori. E un film che non piacerà a tutti. Ma si rivelerà prezioso per coloro che abbiano ancora voglia di ricomporre i cocci della propria anima spezzata.