Se in molti ambienti della critica italiana non fosse diventato una sorta di aggettivazione dai connotati negativi, il cinema di Corso Salani potrebbe essere tranquillamente definito minimalista, richiamando così alla mente quelle epopee anni '80, cariche di ermetismo filosofico, di esercizio di stile spinto agli eccessi, di anime perse divise in due. Anche se a ben vedere Salani in superficie ci rimane poco e di incomprensibile a livello di sentimenti ed emozioni non lascia mica tanto. Palabras, come del resto Occidente, o ancora come Gli occhi stanchi, è un piccolo e fragile oggetto di cinema che va osservato con pazienza e seguito con attenzione. L'incedere lento, contratto ed estremamente inclusivo del regista fiorentino è una firma sottile, oramai ben connotata e matura, ma è anche, e soprattutto, la traccia di uno sguardo depurato da ogni tipo di fronzolo e svolazzo, tutto teso a concentrarsi sui tratti peculiari di personaggi tormentati dalla nostalgia e dal ricordo di amori sfiorati e perduti. In Palabras, sullo sfondo di una moderna Santiago del Cile, è la giovane Adela a raccontare alle amiche la relazione avuta con Alberto un anno prima: un sentimento sofferto, un amore improvvisamente svanito. Lei era sulle Ande assieme ad altri amici ambientalisti per contestare la costruzione di una diga; lui, uno schivo ingegnere italiano, è lì a rappresentare la ditta che quel progetto lo vuole attuare. Sulle tristi melodie di un ballo non consumato, Adela e Alberto si diranno addio. Soggettista, sceneggiatore, regista e attore, Salani (che davanti la macchina da presa così profondo e intenso forse non è) scompone progressivamente la relazione fra i due innamorati, si addentra pian piano nell'insofferenza di Adela, fino a mostrare senza vergogna il patimento di chi ancora può piangere sinceramente per amore. Bravissima e bellissima Paloma Calle quasi sempre in scena.