Tahiti, Polinesia francese. L'alto commissario della Repubblica De Roller (Benoît Magimel, fantastico) trascorre le sue giornate tra incontri e andirivieni.

È un uomo che sa adattarsi a qualsiasi tipo di interlocutore, calandosi perfettamente in ogni tipo di situazione, da quelle più altolocate a quelle più ombrose.

Di fondo, è un uomo che deve tenere sotto controllo il polso della popolazione locale, cercando di prevenire qualsiasi conseguenza ad eventuali, striscianti malumori. E lo spettro di nuovi, sussurrati test nucleari francesi in quelle acque potrebbe rappresentare una minaccia difficile da gestire.

Il catalano Albert Serra fa il suo esordio in concorso al Festival di Cannes con un film fluviale (2h 45') di enorme suggestione: dilatato e rarefatto, poggiato quasi per intero sull'interpretazione monumentale di un Magimel da premio, Pacifiction (gioco di parole potentissimo con cui sottolineare la fusione tra arte della diplomazia e arte della finzione, con l'Oceano Pacifico ad avvolgere tutto) è film-limbo con cui tentare di inquadrare il senso di un tardo colonialismo dalle sfumature intangibili.

Pacifiction
Pacifiction

Pacifiction

Il night gestito da Sergì Lopez (figura fantasmatica silenziosa e sfuggente), i tramonti e le albe di una bellezza soffocante, la sequenza in mare aperto dove onde gargantuesche sono paradiso dei surfisti e minaccia per le imbarcazioni, ogni elemento del film - il primo non in costume diretto dal regista di Liberté - concorre alla rappresentazione di un non luogo dove il tempo sembra sospendersi nell'attesa di qualcosa che potrebbe spazzarlo via per sempre.

Magimel - abito bianco e camicia hawaiana - è presenza costante e di raccordo tra la gente del posto e le ingerenze dei francesi, su tutti il manipolo della Marina capeggiato da un ammiraglio ambiguo e losco.

Pacifiction
Pacifiction

Pacifiction

Non si preoccupa di fornire risposte immediate o di riempire di senso snodi narrativi, Serra, ma preferisce procedere in maniera ieratica, quasi perdendosi in questo paradiso perduto, guardando in lontananza (il binocolo con cui spesso e volentieri il personaggio di Magimel tenta di osservare la conferma di un miraggio), alla ricerca non necessariamente evasa di un cambiamento, una sorpresa, qualcosa che irrompa in maniera travolgente nella quiete di una situazione cullata dallo stallo, e dalle parole (spesso vuote) con cui si gira costantemente intorno alla natura dei problemi.

Un film che resta, ipnotico, dalle atmosfere oniriche e surreali, nonostante la durata non agevole, proprio perché difficilmente catalogabile, ambizione che più spesso dovrebbe accompagnare il senso di un racconto, di una messa in scena. Invitare al dubbio, sospendere il ragionamento, fermarsi di fronte al mistero di un'alba. E di un tramonto.