Adolescenza e (im)maturità. Omofobia e sessualità. Periferia, lutto, emarginazione, precariato e cinefilia. Scoperta dell’identità, innamoramento e desiderio di fuga. 

C’è tutto questo (e anche altro...) nel calderone Normale firmato da Olivier Babinet, regista transalpino che dopo il teen-doc d’esordio Swagger nominato ai Cesar 2016, è tornato nella banlieue parigina (qui più rarefatta che mai) per comporre questo dramma sia famigliare che sociale dai riflessi autobiografici. La storia si poggia sul telaio più consueto del coming of age, virando verso tinte però horror (Lucio Fulci, tra gli altri, brilla come stella polare), pur mantenendo tutti i corollari del genere (l’accettazione di sé, il bullismo, la diversità, l’iniziazione sessuale e il desiderio di fuga).

Tra questo turbinio di generi e riferimenti spunta il viso lindo della sedicenne Justine Lacroix. La semi-esordiente, attrice per caso, calciatrice per passione, presta fisico tornito, boccoli biondi e occhi cerulei alla quindicenne Lucie. La protagonista che lavora in una paninoteca per sostentare il padre William (un Benoît Poelvoorde in versione umorista trasandato) braccato dalla sclerosi multipla. Un uomo che annega il dolore per la morte della moglie tra videogiochi di ruolo, pizze e appunto film horror. La scombiccherata coppia deve schivare l’incubo dell’assistente sociale che significherebbe la perdita dell’affido di Lucie per William, sempre più inadeguato al ruolo di padre a causa dell’incedere della malattia. 

Su questo percorso a ostacoli padre-figlia impegnati a difendere la loro precaria unità, Babinet occulta la partitura teatrale e spinge in direzione della favola (aiutanti e oppositori, il “principe azzurro” e la fuga nel bosco), per indagare una nuova generazione adulta prima del tempo, meticcia ma intollerante e individualista, pulsionale e anaffettiva, costretta, in assenza di padri a farsi le ossa da sé.

Nelle contorsioni tra registri e sentieri narrativi, si staglia l’alchimia recitativa tra Lacroix e Poelvoorde, e la capacità registica di non disperdere il brio umoristico della scrittura (Babinet è anche sceneggiatore a sei mani con Juliette Sales e Fabien Suarez) anche nei frangenti più sconfortati della storia.

Ne esce fuori una narrazione cadenzata, dai contorni approssimati (oltre la scuola e la casa, la periferia si allude e si indovina) dall’alto impatto emotivo, dalla facile proiezione identificativa: chi la apprezzerà, come la giuria under 16 dell’ultimo Giffoni Film Festival che l’ha premiata come migliori film della rassegna, dirà che si è emozionato, che s’è riconosciuto nelle creature del film. Ma d’altronde chi non riconosce parte di sé stesso nei traumi e negli slanci di una sedicenne?

Perché Babinet, segnato dalla morte del padre durante la preparazione del film, sull’humus di un realismo sociale dalla vena anche sconsolata e fatalista, cerca una surrettizia operazione nostalgia a tinte autobiografiche. Anzi un regolamento di conti postumo, coltello tra i denti e rancori mai sopiti, contro traumi, incubi e umiliazioni della sua gioventù anni Ottanta che erompe continuamente nell’ambientazione coeva.

Ecco allora sull’ossatura da romanzo di formazione, la disco hit d’epoca Dolce vita (di Ryan Paris) e, nella traslazione dal maschile al femminile, sprazzi di madeleine: il cinema di Lucio Fulci, il poster di Edward Mani di forbice, i primi amori non corrisposti, compagne di banco idealizzate, il diario segreto, un rapporto capovolto padri-figlie, e soprattutto una protagonista che gioca a reinventare e correggere una realtà con l’immaginazione creativa, che sogna il cinema pur non essendo una cinefila incallita.

In fondo, capovolgendo la meta-prospettiva di sguardo, è la stessa operazione che compie Babinet verso il suo film: sceglie un’opera teatrale, la trapianta nella banlieu, la ambienta ai giorni nostri, consegna ad una giovanissima adolescente dei traumi, per continuare a elaborare i suoi, per pacificarsi verso un dolceamaro tempo perduto.