La bandiera americana ha smesso di sventolare da più di una decade, almeno sullo schermo. E il cinema è ormai testimone della fine di un sogno. Tra i cantori di un’anima crepuscolare, all’apparenza senza redenzione, c’è Alex Garland che, dietro la macchina da presa, si conferma una delle voci più cristalline e controcorrente della nostra epoca. È tra i pochi che, nella tempesta, ha scelto di dare nuova linfa al war movie. I toni non sono mai epici o patriottici. L’obiettivo è rendere visibile ciò che non si può cogliere, dare forma all’incubo.

Era il percorso fatto con Civil War. Si trattava della rappresentazione di un futuro brutale, in cui gli Stati Uniti erano dilaniati dalla guerra civile. E la colpa era proprio del nuovo inquilino della Casa Bianca (il riferimento a Trump era chiaro, ma anche alla follia di Capitol Hill). Bisogna soffermarsi su una delle ultime sequenze di Civil War. I protagonisti assaltavano la Casa Bianca, nella battaglia decisiva. La cinepresa era immersa nell’azione, per dare allo spettatore l’idea di essere all’interno, di essere parte dello scontro.

È da questa concezione che nasce Warfare: la volontà di non risparmiare nulla allo spettatore, di gettarlo nella mischia. A mescolarsi sono la finzione e il documentario. In questo caso Garland firma la regia con Ray Mendoza, un ex Navy Seal. L’obiettivo è essere sempre più vicini alla verità. Il tempo dell’azione coincide con quello della storia.

Siamo in Iraq, nel 2006. Un plotone di soldati sta effettuando una classica ricognizione. Ma qualcosa sta per andare storto. Dentro a un appartamento si scatena la ferocia. La struttura potrebbe ricordare quella di un film di Carpenter: un assedio, il nemico che non ha volto e attacca senza pietà. Garland e Mendoza si concentrano sui dettagli, Warfare è un viaggio all’inferno. Non si vogliono mostrare i muscoli attraverso gli effetti speciali. I veri protagonisti sono il dolore, la sofferenza, le urla. È qui che si sviluppa lo spirito pacifista, anche se il genere lo è per definizione.

Quella di Garland e Mendoza è quindi un’indagine, una ricerca. C’è un realismo raro nella costruzione delle immagini, non adatto ai deboli di cuore. Il film è stato realizzato in base ai ricordi, alle testimonianze dei militari. Lo abbiamo detto più volte, e non ci stancheremo di ripeterlo: il cinema è il testimone privilegiato di ciò che ci circonda. E Garland lo sa bene. Non si limita a raccontare, sviscera i dettagli, quasi si discosta dalla finzione. Non vuole tradire la sua platea, la sua poetica è rispettosa. Sembra voler fare un passo indietro, evitando l’epica e mettendo in scena solo i fatti.

È proprio qui che diventa interessante analizzare il percorso di Garland. Sempre legato all’attualità, all’analisi. Dedito a Carpenter, vicino a Tarkovskij. Nasce come sceneggiatore (è un fedele collaboratore di Danny Boyle, specialmente per la trilogia legata a 28 giorni dopo), ma la scrittura non basta. Servono le immagini. Ha bisogno di interrogarsi sui temi importanti del nostro millennio: l’intelligenza artificiale (Ex machina), la natura dei desideri (Annientamento, un chiaro omaggio a Stalker), la mascolinità tossica (Men), la necessità di misurarsi con il trascendente (la bellissima miniserie Devs).

Ma che cos’è il trascendente per Garland? La capacità di rendere visibile ciò che l’occhio non può cogliere. È quello che succede in Warfare. Si spiega, non si fa retorica, in qualche modo l’intento è anche didattico. Ma non mancano le sorprese. L’inizio del film potrebbe disorientare. Si assiste a uno spettacolo, a un piccolo trionfo di lustrini in formato videoclip. Poi arriva il controcampo. Un gruppo di soldati sta guardando la televisione. Cercano di evadere, inseguono l’escapismo, il fenomeno a cui il cinema si è legato in questi anni con i franchise dedicati ai supereroi. Però poi la leggerezza finisce subito, si passa a una violenza da cui non ci si può sottrarre. Il messaggio è chiaro: serve una presa di posizione, la tv deve essere spenta. Qui Garland si sta rivolgendo direttamente a Hollywood. Ci sta dicendo che la funzione del cinema non può essere solo quella di intrattenere. Serve un passo in più. Le anime devono coesistere, non si può aver paura di mostrare le barbarie, anche se accadono a migliaia di chilometri da noi.

A suo modo Garland è così un pioniere. Il genere del film di guerra affonda le sue radici in epoche superate. Ma qui sta succedendo qualcosa di nuovo. Black Hawk Down di Ridley Scott aveva rappresentato un grido di ripartenza dopo l’11 settembre, The Hurt Locker di Kathryn Bigelow (che non a caso agli Oscar aveva sconfitto Avatar di Cameron) era stata la soluzione intimista a una società dinamitarda. E Warfare? Esce in sala mentre in Europa non si fermano le cannonate, mentre le grida in Medio Oriente si moltiplicano, mentre i governi occidentali si scannano usando l’economia come arma.

Warfare è quindi il ritratto di un contemporaneo tragico. È ambientato nel 2006, ma potrebbe essere il futuro. Risuona come un monito. È un cinema di ferite che sanguinano, di esplosioni che disorientano, di urla che si fanno assordanti, di uomini comuni che perdono ogni punto di riferimento. Non si parla di colpa o redenzione. È un’istantanea, una fotografia. Che pone una domanda: quanto si vorrà continuare così? A colpire è il silenzio prima del massacro, il rumore durante lo scontro, la quiete che abbraccia i cadaveri sul campo.

Una sorpresa, decisamente coraggiosa, antitetica all’offerta data dalle distribuzioni di largo consumo. E proprio per questo Warfare deve essere supportato, per invitare a restare vigili. In concorso in anteprima al Taormina Film Fest.