"Il mio nome è Khan, e non sono un terrorista". Non è lo slogan coniato dal sempre solerte Ministero delle Pari Opportunità, ma la cantilena che un pover'uomo affetto da sindrome di Asperger è costretto a recitare di fronte allo sguardo incredulo di milioni di americani. Atto dovuto a una moglie irragionevole che, avendo perso lavoro e figlio per colpa dei soliti fanatici, lo riconosce colpevole - perché musulmano, perché siamo nel post 11 settembre, perché il mondo è pieno di balordi - di tutte le sue disgrazie: "Vuoi che ti riaccolga a casa?", gli dirà inferocita, "allora dimostra all'America di non essere un terrorista!". E siccome l'America è il Presidente e il Presidente è l'America secondo un'equazione non dimostrata del patriottismo yankee, il povero disgraziato per otto anni cercherà d'incontrare l'inquilino della Casa Bianca per potergli dire la frase incriminata. Non prima d'incorrere in nuove e più terrificanti sciagure che difficilmente il più fetente tra gli spettatori (ivi incluso chi scrive) potrà accettare senza scapocciare contro il muro.
E poco importa che My Name is Khan sia solo una favola sull'accettazione, grondante valori umani: la loro applicazione su grande schermo è troppo smaccata e facile per poter persuadere, e l'abuso di clichè, figurine e retorica: si veda l'entrata in scena del presidente Obama, il cui incedere in ralenti e pompa magna somiglia a quello di Gesù nei sogni kitsch di abietti predicatori - finisce per violare la più elementare regola della narrazione che, quando non vuole essere credibile, deve almeno risultare onesta. Non così My Name is Khan, e per tre ragioni: la prima è che utilizza il punto di vista di un semi-autistico come fosse quello di un ritardato; la seconda è che vuol manipolare le emozioni dello spettatore nel modo più atroce possibile: imponendole; terzo, vuol parlare il linguaggio dei bambini pescando dal dizionario dei grandi: terrorismo, fanatismo, esclusione, malattia, lutto. Il risultato è che problemi oltremodo complessi vengono trattati secondo elementari schemi morali. No vale nemmeno la scusa del made in India, di una sensibilità diversa dalla nostra, perciò da capire e non da giudicare: lo stile ricalca plasticità e morbidezza dei serial televisivi americani; l'ottica poi è più realista del re, più occidentalista degli occidentali. Gli sceneggiatori in ogni caso non avranno avuto nessun'altra pretesa, se non quella di raggiungere la platea più vasta possibile (cosa peraltro che gli è riuscita benissimo, avendo questo filmone di Bollywood sbancato anche fuori i confini dell'India) e servire alla star dell'action indiana Shah Rukh Khan, un diversivo drammatico. Non se la cava male, ma la sua performance è uno strano ibrido tra il Dustin Hoffman di Rain Man e il Tom Hanks di Forrest Gump. Di cui questo film finisce per essere il remake indiano, però scritto e diretto da Forrest Gump in persona.