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C’è un cuore che batte nel cuore di Song Sung Blue (che in Italia esce con l’evitabile sottotitolo Una melodia d’amore), come il crazy heart che tormenta Mike Sardina, un meccanico sobrio da vent’anni che è felice solo quando canta Neil Diamond, e come quello di Claire Stengl, tendenza Heartaches (crepacuori) per dirla con la canzone della sua amata Patsy Cline.
Si conoscono in una serata musicale per una clientela un po’ avanti con gli anni, entrambi arruolati per una parata di cosplayer di idoli degli anni Sessanta e Settanta, tra un signore di mezz’età che continua a mettersi gli occhiali di Buddy Holly (che, è noto, morì a 22 anni) e le versioni discount di Elvis e Tina Turner. I loro sguardi si incrociano tra uno specchio e un riflettore: si riconoscono, si conoscono, si piacciono. Esibirsi non è solo una passione condivisa ma anche un pretesto per stare insieme. “La nostalgia paga”, dice saggiamente Mike, e allora uniscono le forze per una tribute band di Diamond: Lightning & Thunder, lui un fulmine e lei un tuono, inseparabili per definizione.


È uno spaccato, quello del concerto iniziale, che Craig Brewer (anche sceneggiatore) tratteggia con affetto e senza patetismo, dando le coordinate sentimentali per orientarsi in questo film spudoratamente empatico. Non si può non osservare con affetto e senza patetismo gli artisti di terza classe che bazzicano nei locali di periferia, non solo perché sono quelli che non ce l’hanno fatta a compiere il grande salto ma anche perché sono coloro che (forse) riescono a essere felici soltanto quando stanno di fronte a un pubblico, affidando alle canzoni la possibilità per disfarsi di angosce, frustrazioni, malinconie.
Una categoria umana, antropologica, spirituale che trova in Lightning & Thunder i suoi esemplari ideali: i battiti dell’America profonda (Milwaukee, Wisconsin), i bagagli emotivi complicati (lui è un veterano del Vietnam, lei ha cicliche depressioni, entrambi sono divorziati perché il marito di Claire non capiva le sue esigenze e la moglie di Mike non si sentiva capita), i sogni apparentemente piccoli di un popolo che crede fermamente di avere comunque diritto alla felicità. Qualcuno li chiamerebbe perdenti, ma è una distorsione concettuale in una nazione votata alla religione del profitto, all’omaggio dei vincenti, alla retorica del farsi da soli.


Song Sung Blue – che prende il titolo dalla hit di Diamond nonché dal documentario di Greg Kohs dedicato alla coppia – recupera l’istinto popolare, la felicità sintetica, la stratificazione emotiva del cinema biografico americano. Condensa in un ridotto arco temporale una storia coniugale e professionale che in realtà durò dodici anni e ricorre al tradizionale schema in tre atti individuando alcune situazioni di forte impatto emotivo (un sorriso dentro al pianto per l’apertura del concerto dei Pearl Jam, la dura convalescenza di Claire dopo l’incidente, il concerto finale da fiumi di lacrime).
Plasma un lessico visivo che trasforma il passato recente in un momento storico meno definito, più mitico, addirittura svincolato dalla cronologia a costo di sembrare un anacronismo da anni Settanta (siamo tra gli anni Novanta e i primi Duemila, anche se la fotografia di Amy Vincent gioca proprio sui cromatismi e sulle densità di un cinema più rétro). E si affida a canzoni che incrociano efficacia metatestuale e coinvolgimento sentimentale (Play Me come una dichiarazione d’amore, Soolaimon per celebrare il senso comunitario) e a due interpreti in stato di grazia, Hugh Jackman e Kate Hudson (affiancati da comprimari di lusso, in primis i manager Jim Belushi e Fisher Stevens, perfetti nel dare vita a ragioni e sentimenti di questi loser pieni d’amore. Come lo è questo film caldo e commovente, con un cuore d’oro.

