Quanti di noi hanno amato Psycho e Non aprite quella porta? Quanti di noi hanno osservato il dolore oltre la paura e l’intrattenimento feroce garantito da quei titoli ormai divenuti cult, riflettendo sulla realtà degli accadimenti e non sulla spettacolarizzazione che ne è derivata? Al silenzio, e poi al tempo, le risposte — in dialogo con l’insaziabile fame di mostri che la società tutta, dalle origini fino a oggi, finge di ripudiare o, peggio, rigettare, pur essendone schiava.

Ryan Murphy, una delle voci più autorevoli del true crime cinematografico e seriale degli ultimi anni, intercettando ancora quella fame, torna alla sua “creatura” più riuscita, Monster, facendo luce sul legame inestinguibile tra il male che gli uomini sono capaci di compiere e l’intrattenimento macabro e divertito che ne può derivare. Fate attenzione, però: Monster – La storia di Ed Gein, a dispetto delle attese, è una parabola affascinante e malinconica sul dolore, sull’elaborazione del trauma e dell’abbandono, prima ancora della violenza. Poiché, oltre il macabro, c’è la realtà; e oltre i mostri, ci sono gli uomini.

Sospeso tra meta-cinema, biopic della ferocia e dramma dei sentimenti, Monster – La storia di Ed Gein rintraccia, negli scenari desolati, gelidi e implacabili del Wisconsin, la dimensione inedita e intima di colui che fu appellato dalla stampa come “Il macellaio di Plainfield”. L’effettivo protagonista di questa memorabile terza stagione, infatti, non può che essere il luogo in cui tutto ha avuto un inizio e poi una fine: la fattoria di famiglia, la cittadina oltre le distese e la boscaglia, e così quelle vecchie abitazioni che, in fila una dietro l’altra, in attesa di divenire suburbia, sono state fienili, catapecchie di legna deteriorata, incessantemente scosse dal vento e da taciute violenze familiari, perpetrate dai padri e, subito dopo, dai figli, a danno di figure femminili impossibilitate alla fuga e alla ribellione. Ecco che, allo scorrere del tempo, si lega l’osservazione del male e, con essa, la sua ormai “normalizzata” — o, peggio, banalizzata — messa in pratica.

Il “mostro” Ed Gein, infatti, non nasce per casualità. La violenza folle, dapprima immaginata e poi orrendamente sperimentata, è la conseguenza diretta di un trauma mai elaborato, né tantomeno confessato, il quale ha a che fare tanto con la confusione emotiva e carnale delle pulsioni sessuali e della scoperta identitaria, quanto con il rapporto disfunzionale — o, peggio, disturbato — tra una madre che ha conosciuto e accettato la violenza e un figlio che non dovrà mai farsi uomo. In questo senso, l’unica prova interpretativa realmente infernale e orrorifica è quella di Laurie Metcalf, qui nei panni crudeli e profondamente ambigui della madre di Ed Gein: colei che, per prima, conoscerà (e osserverà) le origini del male, tacendo ancora una volta, prima di morire e tornare a vivere, seppur “indossata” dal figlio.

Nel mezzo, amori possibili, tormentati e deviati inevitabilmente dal maligno cui ormai Ed è assoggettato — splendida l’eleganza cupa e macabra di Ryan Murphy, Ian Brennan e Max Winkler, in equilibrio precario eppure rigoroso tra dolcezza e inferno —; grottesche danze di morte e femminilità perduta e poi ritrovata — la prova di Charlie Hunnam è audace oltre ogni attesa, fisica, questo è certo, eppure giocata quasi interamente sullo sguardo, un po’ innocente e un po’ diabolico —; e infine moltissimo show, cinema e insaziabile appetito voyeuristico per la carne martoriata.

Ciò che sorprende e colpisce di questa stagione, ricordando quanto visto nelle precedenti, è il suo minimalismo di forma, linguaggio e scenario. L’inquietudine è di certo presente — spaventoso il siparietto macabro tra Ed e i bambini cui dovrebbe badare —, eppure la malinconia, ulteriormente favorita dalla splendida colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, fa da padrona: sull’amicizia inattesa, la confessione del proprio dolore e l’accettazione dell’addio, ormai inevitabile e pacificato. Dirà Ed Gein: “L’hanno raccontata fin troppe persone, la mia storia, non è così? Sembra che la conoscano meglio di me”. Murphy ne indossa le carni e la psicologia: si fa mostro e ci riconsegna l’uomo. Memorabile.