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The Fence
I cattivi dicono che a Claire Denis venga buono un film su due. Noi, che cattivi non siamo, non vi diciamo se questo è uno o due, sicché tocca leggerci. O, si capisce, ignorarci.
Dopo lo spazio (High Life, 2018) e il Nicaragua (Stars at Noon, 2022), la regista francese torna a casa, avendo vissuto in più paesi del continente, lì piazzando la camera nuovamente nell'Africa occidentale postcoloniale: The Fence (La cri des gardes), fuori concorso al 43° Torino Film Festival.
Basato su un'opera teatrale, Combat de nègre et de chiens, del 1979 del defunto e celebrato Bernard-Marie Koltès (già malato di Aids, visitò il primo set di Denis, Chocolat, NdR), racconta di tre bianchi che vivono in un compound nella zona rurale di una non meglio precisata Africa occidentale: un incidente, elevabile a omicidio, è appena accaduto sul cantiere e il fratello del defunto viene a reclamare il corpo. Nel mentre, la giovane moglie, cui ineluttabilmente tocca farsi carico della vulnerabilità in un mondo di soli uomini, del caposquadra del sito arriva dall'estero, contribuendo alla verbosità delle interazioni e corroborando la noia degli spettatori.
Molando il rasoio di Occam, potremmo dire che non tutte le opere dovrebbero essere moltiplicate, e che l’originale di Koltès poteva rimanere una, unica e teatrale: Denis, viceversa, è di diverso avviso, sicché un po’ elude i postcolonial studies, un po’ (tanto) elide lo specifico cinematografico, ammannendo una trasposizione più leziosa che severa, più atona che compresa.
Matt Dillon, il capocantiere, ha la faccia stolida e immota per tutte le stagioni di questa drammaturgia senza soluzione di continuità, ché l’upgrade ambientale e geopolitico della pièce del ’79 rincara la datazione, anziché dissimulare le rughe.
Sembra, meglio, appare la nostra Claire Denis come una maestrina dalla penna rossa, atta a stigmatizzare il vulnus e l’apartheid procurato dall’uomo bianco, come una attivista sinceramente democratica, atta a denunciare l’imperialismo e il turbocapitalismo occidentale, ma – diceva il saggio – se devi mandare un messaggio meglio il telegramma.
Lungi dall’essere il dirimine tra “noi” e “loro”, il discrimine tra il dominio e l’aggiotaggio, la recinzione separa l’intenzione dal risultato, la volontà dall’esito, il film dal pubblico.
Comunque, si va per una notte oscura e, meglio, pesta appresso al richiedente Albouny (l’habitué di Denis Isaach De Bankolé) e il caposquadra del sito Horn (Matt Dillon), protetto ma non abbastanza dalla “titolare” recinzione: a completare il meccano umano la nevrotica e alienata giovane moglie di Horn (Mia McKenna-Bruce) e il suo braccio mal-destro (Tom Blyth), The Fence è sordo, compresso, un grumo di rabbia, non liberato dal cinema. Ahinoi.
