Riecco Thomas Anderson (Keanu Reeves), ma come non lo conoscevamo: dietro una scrivania, designer di videogiochi, anzi, di un videogioco, The Matrix, che altro non è che la trilogia dei fratelli e quindi sorelle Wachowski. Non ne è solo la mente, ma la memoria, giacché dai suoi ricordi è venuto l’ipertesto, dalla sua vita lo storytelling: non quella di Thomas, ma di Neo, s’intende.

Il videogame ha avuto grande successo, e come non raddoppiare, remake o reboot che sia: lo pretende il suo capo, Jonathan Smith (Jonathan Groff). Ma la riluttanza esistenziale di Thomas non è totale, un residuo sfarfallio insinua il dubbio se sia realtà o immaginazione quel che sta (soprav)vivendo, e se il Bianconiglio vada seguito una volta ancora: il frutto della conoscenza, ovvero la fatidica pillola rossa per sfuggire a Matrix, gli verrà porta da un nuovo gruppo di Hacker, guidato dalla tosta e punkettona Bugs (Jessica Henwick). Che c’è dietro il quotidiano, che c’è dentro Neo? L’amore probabilmente, per la cara vecchia Trinity (Carrie-Anne Moss), che ora forse si chiama Tiffany.

Tagliamo corto, battezzato nel 1999 con il primo, inarrivabile e seminale Matrix, corroborato così e così da Reloaded e Revolutions nel 2003, il franchise dei Wachowski ha fatto la storia, e non solo del cinema, ora dopo ventidue anni è arrivato il momento, complice la volontà di Warner Bros. opportunamente evocata e stigmatizzata su schermo, di ritornare al futuro con un quarto capitolo, Matrix Resurrections, scritto – con David Mitchell e Aleksander Hemon – e diretto dalla sola Lana Wachowski.

Che film è? Domanda pertinente, però non troppo: il tentativo – letteralmente – sensibile è di agire in modo – letteralmente – sensibile sul meccanismo di causa-effetto dell’Hollywood industriale, sul congegno – e la congerie… – degli universi cinematici marveliani e non, sul post hoc ergo propter hoc che anziché modellare poetiche informa modelli matematici, ovvero esigenze commerciali.

Ecco se Warner a Lana ha fatto prendere la pillola blu, ovvero la cura Thomas, Lara a Warner prescrive de facto la cura rossa: grande è la confusione sotto il cielo di questa resurrezione, anzi, Resurrections plurale, quindi se non il film comunque la situazione ideologica è eccellente.

Non solo il diritto, ma il dovere di scelta: Neo torna da profeta pragmatico, non schiva più, fa scudo, è meno fico, più incassatore, e ancora in forma il prestatore d’anima e corpo Keanu Reeves, che nelle sequenze action pare quasi allenarsi per John Wick 4. Di uno due, Neo e Trinity, destituita da simulazione, anzi, Simulatte da soccer mom & milf e recuperata alla, ehm, forza: non stupisce dato il percorso Wachowski, questa resurrezione è sopra tutto transizione, ed è un vettore eterodosso, pacchiano a tratti, coraggioso sempre, immaginifico talvolta, derivativo molto, della saga e del resto, ma anche sommatorio con beneficio, summatorio con poesia.

Si può trovare, se non di tutto, di molto in questo Resurrections, a partire dagli interpreti: Neil Patrick Harris nel ruolo dell’Analista, il terapista di Thomas, Priyanka Chopra Jonas per la saggia –e terribilmente noiosa - Sati, Jada Pinkett Smith che ritorna quale Niobe, l’agguerrita Generale che lottò per la sopravvivenza di Zion e, ovvio, Morpheus, non più Laurence Fishburne, ma il colosso Yahya Abdul-Mateen II. E arrivando, in piena conformità, anzi, omogeneità all’assunto poetico e cosmogonico, al déjà-vu, che non è solo effetto nostalgico, raccordo rassicurante, ubi consistam del fandom, ma presa in carico e presa di coscienza di questi ventidue anni, delle devoluzioni sociali, evoluzioni politiche, involuzioni cinematografiche, di un tutto – sì, un tutto – non accorciato per sunto, non approcciato per estetica, ma riguadagnato per aritmia, cuore e tempo insieme.

Ci piace rivedere Neo, ci piace rivedere Trinity, ritrovare Matrix, ripensare nella durata del film il perdurare dell’originale, ripensare in questo “futuro al ritorno” come sono gli altri remake, sequel, reboot, spin-off su piazza globale e come (non) sia questo?

Film labile ma non precario, permeabile ma non colabrodo, materico ma non materiale, Resurrections ci chiama alla scelta, ci spalanca i ricordi – gli uomini che cadono dalle Torri del 9/11, qui fatti proiettili, e l’obiezione di coscienza e la libertà di cura, e il Covid… – e, appunto, i déjà-vu, intra e interfilmici.

Direte, tra ondivaga filologia, non fideistica filososfia e refrattarietà al narcisismo (e solipsismo), non si uccidono così anche i cult? Forse, ma così si fanno risorgere, di più, si risorgono i film.

Lunga vita, dopo la morte, dentro il Matrixverso, oltre il fenomeno dentro il noumeno, oltre la perfezione dentro la pascaliana scommessa, oltre il prodotto indietro agli ingredienti: ecco Resurrections.