La premessa è semplice, quasi da “high concept”: Ada, incinta del secondo figlio, si trasferisce con il compagno Rino in una casa isolata nella natura. Man mano che il parto si avvicina, il lutto per la morte del primogenito – un annegamento accidentale – riemerge con violenza. Ada non ha elaborato quella perdita: inizia a vedere e sentire il bambino morto, a percepirlo come una presenza ostile, convinta che sia tornato dall’aldilà per impedire la nascita del fratello. Folle allucinazione o revenant “in carne e ossa”?

Il film di Mara Fondacaro, napoletana, classe 1994, alla sua opera prima, abita proprio questo spazio di ambiguità: al centro l’archetipo della Madre e di tutte le paure annesse e connesse alla maternità. Portate alle estreme conseguenze. Un racconto sul corpo materno come luogo dell’alterità radicale: ciò che dentro cresce e “non siamo noi”, ciò che possiamo perdere, ciò di cui possiamo sentirci colpevoli. Non è un caso che Il primo figlio entri in risonanza con una genealogia precisa di cinema sull’ombra del materno – da Rosemary’s Baby a The Babadook – spostando però il baricentro dalla dimensione demoniaca a quella traumatica. Il figlio che ritorna non è tanto il portatore di un Male metafisico, quanto il corpo fantasmatico di una colpa inammissibile.

Benedetta Cimatti e Simone Liberati in Il primo figlio (2025)
Benedetta Cimatti e Simone Liberati in Il primo figlio (2025)

Benedetta Cimatti e Simone Liberati in Il primo figlio (2025)

Il film lavora su tre registri intrecciati: il lutto, la colpa del sopravvissuto, la paura della maternità. Ada ha “fallito” una prima volta e teme di fallire ancora, teme di non saper proteggere, teme che il destino le presenti il conto. Rimanere aggrappata alla colpa – continuare a vedere il figlio morto, nutrire la sua presenza – è, paradossalmente, una forma di controllo: finché la colpa è viva, finché la ferita sanguina, non può essere dimenticata. Il fantasma diventa allora la figura di questo attaccamento: non l’irruzione di un mondo altro, ma la persistenza malata di un affetto che non riesce a trasformarsi in memoria.

A rendere più interessante Il primo figlio è il fatto che questa dinamica profondamente privata si apre a una lettura più ampia, quasi generazionale. Il figlio che torna è anche l’“alieno” che non si riconosce più: il bambino appartiene a un altrove (il lago, la morte, un tempo sospeso) e guarda la madre come qualcosa di opaco, forse colpevole. In un contesto occidentale segnato da denatalità, adulti eternamente adolescenti e conflitto dichiarato tra generazioni, la figura del figlio come Altro irriducibile diventa una metafora tutt’altro che astratta. Il cortocircuito è semplice, brutale: chi dovrebbe essere la persona che capisco meglio al mondo – “mio figlio” – diventa invece il volto che non leggo, il gesto che non prevedo, lo sguardo che mi giudica. Da ...e ora parliamo di Kevin in poi il cinema degli anni 2000 ha esplorato a più riprese questo smarrimento materno; Fondacaro vi aggiunge la dimensione del revenant, come se la frattura tra generazioni fosse già iscritta in un patto infranto con i morti.

Simone Liberati in Il primo figlio (2025)
Simone Liberati in Il primo figlio (2025)

Simone Liberati in Il primo figlio (2025)

Dentro questo quadro, la regista sceglie di non liquidare la figura maschile. Rino, interpretato da Simone Liberati, è un “maschio beta”, come dice la Fondacaro: fragile, disorientato, sincero nel proprio dolore e tuttavia invischiato in una cultura che gli ha insegnato che l’uomo deve avere il controllo. Il patriarcato qui non è solo ciò che schiaccia le donne, ma anche una gabbia che impedisce agli uomini di nominare la propria fragilità. È un’intuizione sottile, che avvicina Il primo figlio a certo cinema contemporaneo sulla crisi del maschile senza mai trasformare Rino in un simbolo.

Su questo dispositivo relazionale si innesta la performance di Benedetta Cimatti, vero baricentro del film. Fondacaro la dirige chiedendole “misura” e naturalezza, e Cimatti restituisce un personaggio continuamente in bilico tra il plausibile e il perturbante: non una “posseduta”, ma una donna che scivola gradualmente fuori asse, scavando nel registro dell’esaurimento, dell’ossessione, del ritiro dal mondo. Il lavoro sul corpo – le posture irrigidite, i movimenti rallentati, la fatica di abitare lo spazio domestico – e sul volto – gli occhi spesso persi in un fuori campo mentale che non vediamo – fa di Ada una presenza insieme quotidiana e aliena, credibilissima nel dolore e inquietante quando la sua percezione del reale si incrina. Se il film regge la lunga permanenza in soggettiva emotiva, è anche perché Cimatti riesce a far sentire sempre, sotto la superficie, la possibilità di una lettura “razionale” e quella di un vero collasso psichico, senza mai schiacciare il personaggio su una sola diagnosi.

Il primo figlio (2025)
Il primo figlio (2025)

Il primo figlio (2025)

Veicolo del trauma e dispositivo formale scelto da Fondacaro, è l’horror domestico: pochi ambienti, una casa isolata, un lago, pochissimi personaggi. Girato in Molise e trasformato in un non-luogo, il paesaggio perde ogni referenza geografica per diventare spazio mentale. L’interno della casa – quasi privo di luce artificiale, rischiarato da finestre e fessure – è la proiezione della psiche di Ada: pieno di ombre, tagli di luce fredda, angoli in cui qualcosa può apparire senza preavviso. L’autrice definisce il film “un incubo di 92 minuti”, e la fotografia di Fabio Paolucci asseconda questa intenzione: palette algide, natura mai davvero consolatoria, un’unica, significativa variazione cromatica in corrispondenza del racconto-chiave su “ciò che è successo”, quando il trauma viene finalmente nominato e, per un istante, il mondo sembra riscaldarsi.

La simbologia dell’acqua è l’altro pilastro dell’immaginario del film. L’acqua come ambivalenza radicale – placenta che nutre e diluvio che distrugge – attraversa tutta la messa in scena: il lago è luogo del gioco e luogo della morte, superficie placida e abisso pronto a inghiottire. Per una regista cresciuta all’ombra del lago d’Averno, “porta dell’inferno” nella tradizione classica, non sorprende che l’acqua assuma i connotati di un confine tra mondi: è lì che il primo figlio resta sospeso, né davvero morto né davvero vivo, sempre “raggiungibile” e mai raggiunto. Il fantasma avvolto nelle alghe, il corpo che porta addosso i segni del sommerso, non può non evocare la Samara di The Ring: anche qui l’acqua non è più elemento di nascita ma stagnazione, putrefazione, memorie che non defluiscono.

A completare il dispositivo è un lavoro sul sonoro che merita attenzione. Fondacaro appartiene a quella generazione di cineasti cresciuta in un’epoca in cui il sound design è diventato campo di sperimentazione primaria. In Il primo figlio il suono non accompagna le immagini, le contraddice: rumori circolari, distorsioni, bruschi scarti di volume costruiscono la soggettiva acustica di Ada più ancora di quella visiva. Ogni rumore ti porta a chiedere: è reale o mentale? Le musiche di Alessandro Ciani, spesso al limite tra melodia e rumore, evitano la colonna sonora “guidata” per aderire al flusso emotivo della protagonista. È anche qui, nella scelta di affidare al suono il compito di “mettere a fuoco” l’invisibile, che l’esordio di Fondacaro dialoga con il cosiddetto elevated horror, quello che preferisce il turbamento al jumpscare. L’altro dialogo esplicito è con Rosemary’s Baby: non solo per il piccolo omaggio visivo alla Minnie Castevet polanskiana (che vi invitiamo a scoprire), ma per una comune etica della messa in scena.

Il rischio di un’operazione del genere è quello di restare schiacciata tra due poli: da un lato il pubblico di genere che chiede “paura” in senso più diretto, dall’altro il pubblico autoriale che diffida dell’horror come etichetta. Non aiuta un’industria ancora cauta – per non dire diffidente – verso il cinema dell’orrore, pronta a rivendicare l’heritage di Bava e Argento ma più timida quando si tratta di sostenerne i discendenti. In questo contesto, Il primo figlio appare come una scommessa consapevole: un film che non promette “salti sulla poltrona”, ma l’immersione in un incubo in cui il vero mostro è un fantasma interiore.

Non tutto è perfetto: qualche passaggio dialogico indulge nella spiegazione, qualche snodo simbolico rischia la ridondanza. Ma nel complesso l’esordio di Mara Fondacaro segna un tassello importante nella ricostruzione di un horror domestico italiano capace di tenere insieme immaginario e psicoanalisi, tradizione di genere e sguardo autoriale sul presente. In un paese che fatica ancora a raccontare la maternità al di là dei codici rassicuranti della retorica, mettere in scena una madre che non sa perdonarsi, un figlio che torna per ricordarle ciò che vorrebbe dimenticare e un uomo incapace di reggere il peso del proprio smarrimento è già, di per sé, significativo. Il fatto che lo si faccia passando attraverso immagini e suoni che non sappiamo se esistano davvero, significa aver intuito che il perturbante non è un effetto speciale, ma un modo necessario di guardare dove, altrimenti, non oseremmo.