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Mara Fondacaro sul set di Il primo figlio (2025)
Alla voce “nuovi talenti del cinema italiano” va scritto anche il nome di Mara Fondacaro. Napoletana, classe 1994, è uno degli sguardi più interessanti della nuova generazione di autrici italiane. Formata tra l’Accademia di Belle Arti di Napoli e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ha firmato come sceneggiatrice il corto Le variabili dipendenti, premiato con il David di Donatello. Con Il primo figlio esordisce alla regia di un lungometraggio: un thriller psicologico venato di horror che diventa il ritratto perturbante di una maternità ferita, tra lutto, senso di colpa e paura del futuro. Prodotto da Nightswim e Sajama Films, e interpretato da Benedetta Cimatti e Simone Liberati, arriverà nelle sale italiane il 27 novembre 2025, distribuito da Lo Scrittoio con Nightswim.
Protagonista è Ada, alla seconda gravidanza, che non ha mai davvero elaborato la morte del primogenito: nell’isolamento di una casa immersa nella natura, la donna inizia a credere che quel figlio sia tornato dall’aldilà per impedire la nascita del fratello. È follia, elaborazione del lutto o davvero un fantasma che bussa alla porta? Ne abbiamo parlato con la regista.
Partiamo dall’inizio: che cos’è Il primo figlio per te e da dove nasce questa storia?
Nasce da un incubo molto insistente: per un periodo ho sognato più volte di partorire un serpente. Mi svegliavo turbata, dicevo a tutti: “Ma perché sogno di partorire un serpente? Che ho?”. A un certo punto ho capito che dovevo smettere di subirlo e cominciare a indagarlo. In parallelo ero stata a una festa di paese un po’ esoterica, con luci strane, un’atmosfera sospesa. Ho messo insieme queste cose – l’incubo, la festa, la mia paura della maternità – e ne è uscita la prima versione della storia.
Ho scritto il film quando ero ancora studentessa al Centro Sperimentale, come saggio di fine anno di sceneggiatura: negli anni la sceneggiatura è cambiata tantissimo, ma l’innesco è rimasto quello.
Nel film ci sono lutto, rimosso, paura della maternità. Perché ti interessava affrontare proprio queste paure?
Perché sono le mie. Sono una persona che ha molta paura di tutto: delle altezze, del buio, degli spazi chiusi… e della maternità. Io credo che ogni donna, prima o poi, debba fare i conti con la domanda: “Sarò madre o no?”. Non tutte devono diventarlo, ma la domanda arriva comunque. Nel film questa paura si somma al lutto e al senso di colpa.


Benedetta Cimatti in Il primo figlio (2025)
Ada è terrorizzata dall’idea di commettere un altro errore dopo aver perso il primo figlio. Parlo spesso di elaborazione del lutto e di colpa del sopravvissuto, o di chi si sente causa di una morte. Qui ho amplificato al massimo quelle sensazioni: la maternità diventa il luogo dove le paure più intime, inconfessabili, esplodono.
L’horror è il genere ideale per parlare di questi fantasmi interiori. Eppure in Italia è ancora considerato “pericoloso”, anche dall’industria…
Sì, e mi dispiace tantissimo. C’è ancora questo pregiudizio: l’horror come genere minore, di serie B, o comunque come qualcosa che “mostra cose brutte” e quindi spaventa anche chi deve produrlo. Paradossalmente non è tanto il pubblico a respingerlo: quando parlo con persone che non fanno cinema, tutti mi citano The Witch, The Babadook, The Lighthouse, Hereditary. C’è attenzione, c’è curiosità.
Tu però sei riuscita a fare un film di genere: chi ha creduto in Il primo figlio?
Ho avuto una fortuna enorme: ho incontrato due produttori illuminati come Stefano Sardo e Ines Vasiljević di Nightswim. A loro interessava prima di tutto la storia, non l’etichetta di genere. Hanno letto la sceneggiatura, hanno sentito che quella era la forma giusta per raccontarla e hanno deciso di rischiare. Hanno combattuto tanto, perché quando dici “horror” molti si spaventano, ma non hanno mai provato a snaturare il film per renderlo più “accettabile”.
Poi è arrivata anche Pilar Saavedra Perrotta con Sajama Film, e il progetto ha iniziato a camminare sulle sue gambe.
Come sei arrivata tu al cinema? È stata una vocazione precoce?
Fino ai tredici anni volevo fare l’archeologa o la psichiatra. Che poi, se ci pensi, non sono così lontane: in entrambi i casi vai a scavare, nel passato o nella mente. Ho persino fatto il test di Medicina. A un certo punto però mi sono detta: “Perché studiare dieci anni per avere a che fare con i mostri reali della psiche, quando posso crearne di nuovi raccontando storie?”.


Benedetta Cimatti e Simone Liberati in Il primo figlio (2025)
Il cinema è entrato nella mia vita da bambina: i pomeriggi sul divano con mio nonno che era ossessionato dalla “vecchia” mafia. Guardavamo Il padrino, C’era una volta in America, ma anche Pretty Woman. Al cinema il primo ricordo vero è Il gobbo di Notre Dame all’aperto, alle arene estive. Più avanti c’è stato Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, che è ancora il mio preferito, anche perché introduce quella tonalità un po’ dark che evidentemente mi appartiene.
Ho letto che non hai un genere preferito, ma una predilezione per le storie oscure. Cosa ti attrae di quell’“oscuro”?
Mi attrae proprio perché mi spaventa. Io guardo horror per esorcizzare le paure: se riesco a sopportarle sullo schermo, forse riesco a governarle un po’ nella vita. Sono quella che in sala guarda le scene più spaventose con la mano davanti agli occhi, però continua a guardarle.
Quali film ti hanno segnato da questo punto di vista?
Non aprite quella porta: ogni volta che lo rivedo mi mette a disagio fisicamente. L’esorcista continua a farmi paura. E poi Sinister, che trovo ancora molto inquietante. In generale, però, mi colpiscono i film in cui la paura continua a lavorarti dentro dopo la visione, magari sotto forma di fastidio, di incubi. In questo senso Hereditary mi ha disturbata parecchio, mentre Midsommar lo sento più inquietante che spaventoso.
Nel film il trauma personale si intreccia con una paura più ampia: quella dei figli, delle nuove generazioni. Ci hai pensato mentre scrivevi?
All’inizio no, ero concentrata su Ada e sulle sue paure. Poi però alcune letture critiche mi hanno fatto notare che nel film c’è anche questo: la paura dell’altro da sé che è il figlio. Tu pensi che tuo figlio debba essere la persona che capisci meglio al mondo, e improvvisamente non lo riconosci più. È un cortocircuito fortissimo. Viviamo in un’epoca in cui l’io è diventato misura di tutto: l’individuo post-digitale, quello che si specchia continuamente e vede solo se stesso.


Il primo figlio (2025)
È normale che l’altro – anche quando letteralmente “viene da te” – faccia paura. Nel film quel bambino è un alieno: appartiene a un altrove che Ada non controlla, la guarda, la giudica, la mette di fronte alle sue responsabilità. E lei, come molti adulti di oggi, fatica a riconoscere davvero le nuove generazioni: le teme, le giudica, invece di chiedersi che cosa abbiamo fatto noi per loro.
C’è anche una figura maschile molto interessante: Rino, interpretato da Simone Liberati. Che tipo di uomo volevi raccontare?
Con Simone ci siamo detti subito che Rino è un “maschio beta”: un uomo che soffre, ci prova, non ce la fa, e non ha paura di mostrare la propria fragilità. Allo stesso tempo, però, è cresciuto in una cultura patriarcale che gli ha insegnato che l’uomo deve avere il controllo delle situazioni. Quando questo controllo gli sfugge – perché la compagna è in un dolore inaccessibile, perché la famiglia va in frantumi – va in crisi, alza la voce, diventa verbalmente aggressivo. Mi interessava proprio questo: farne una figura positiva ma vittima, a sua volta, del patriarcato. È un uomo che vorrebbe fare la cosa giusta e non ha gli strumenti per farla. Anche per questo lui e Ada non riescono a comunicare il loro lutto: ognuno lo elabora in modo diverso, ma nessuno dei due riesce davvero a condividere quel dolore.
Il film lavora moltissimo sui simboli: acqua, lago, alghe, casa isolata. Partiamo dall’acqua: perché è così centrale?
Per me l’acqua è l’elemento più ambivalente che esista: dà vita – pensiamo al bambino nella placenta – ma porta anche morte, dal diluvio universale in poi. In sceneggiatura era ancora più presente, poi abbiamo asciugato, ma sono felice che si percepisca comunque. Il lago, in particolare, mi fa paura: l’idea del mulinello, del vortice che ti tira giù mentre stai nuotando tranquillo. Da napoletana ho sempre avuto un’ossessione per il lago d’Averno, considerato nel mito una porta dell’inferno. Pensavo al traghetto di Caronte, a quell’acqua di confine tra la vita e la morte: volevo che il primo figlio di Ada fosse lì, in un limbo. Ada è un’insegnante di materie umanistiche: nella mia testa queste reminiscenze mitologiche le appartengono. Quando pensa al lago, pensa inconsciamente a quel confine. E allora, se il bambino è nel lago, forse è ancora raggiungibile.
E le alghe che avvolgono il fantasma del bambino? Sostituiscono il serpente dei tuoi incubi?
Diciamo che il serpente l’avevo messo e poi è “sgusciato via” (ride). A un certo punto ho pensato che sarebbe stato un elemento puramente decorativo, molto costoso da realizzare, e che non aggiungeva davvero qualcosa alla storia. Le alghe invece nascono da un’immagine mentale precisa: il modo in cui Ada ha visto il corpo del figlio all’obitorio. Quello sguardo le è rimasto impresso, e quando lo rivede da fantasma lo rivede così, con quell’idea di corpo sommerso, di acqua stagnante alla The Ring: l’acqua che non è più vita ma solo morte.
La casa isolata è l’altro topos forte. Non hai temuto che tanta claustrofobia potesse “chiudere” troppo il film?
No, perché io amo i film chiusi in pochi ambienti. È una sfida registica: hai tre stanze, un giardino, un lago, e devi trovare il modo di non annoiare mai lo spettatore. Qui l’isolamento era fondamentale: Ada si è chiusa rispetto agli amici, alla famiglia, al mondo. Lasciarla sola significa rendere ancora più difficile la gestione del dolore. Abbiamo girato tutto in Molise, che abbiamo trasformato in un non-luogo: non volevo un paesaggio riconoscibile, ma uno spazio psicologico.


Simone Liberati in Il primo figlio (2025)
La fotografia di Fabio Paolucci ha lavorato moltissimo su questo: il film per me è un incubo di 92 minuti. Non c’è quasi mai luce artificiale in casa – niente lampadari, niente abat-jour – la luce arriva sempre dall’esterno, come se Ada fosse incapace di vederla davvero. Il colore è freddo, algido, tranne in una scena chiave, il racconto di “cosa è successo”: lì c’è uno stacco cromatico più caldo, perché è il momento in cui il trauma viene finalmente nominato.
Come hai lavorato con Benedetta Cimatti e Simone Liberati su questo materiale così delicato e “di genere” allo stesso tempo?
La nostra parola d’ordine è stata: misura. Ho chiesto loro di dimenticarsi il contenitore horror. Ho detto: “Voi state vivendo un dramma familiare. Recitatelo come lo vivreste nella realtà. Poi, quando il film entra nella sua parte più apertamente horror, facciamo uno step in più, ma sempre restando credibili”. Come riferimenti ho fatto vedere a Benedetta film legati al materno e al lutto come Rosemary’s Baby, The Babadook, Rabbit Hole e serie come The Haunting of Hill House. A entrambi ho mostrato anche film sulla crisi di coppia, perché alla fine Il primo figlio è anche la storia di una coppia che non riesce più a parlarsi.
A un certo punto decidi di mostrare il bambino morto, “in carne e ossa”, e non solo come suggestione. È una scelta forte: perché l’hai fatta?
Mi piaceva l’idea di partire da una zona ambigua – siamo nella testa di Ada, vediamo le cose dal suo punto di vista – e poi, a un certo punto, far fare un click anche allo spettatore. All’inizio le apparizioni sono più soggettive, potresti pensare che sia tutto nella sua mente. Poi però il fantasma si materializza in modo più oggettivo, e lo spettatore è costretto a chiedersi: “E se ci fosse davvero?”.
Ma tu ci credi ai fantasmi?
Io credo che gli spettri esistano, ma non saprei dirti in che forma. Un film che rappresenta bene la mia sensazione è A Ghost Story: quell’idea di presenza malinconica, tristissima, che continua a restare in un luogo anche quando tutti sono andati via. Non so se sia un lenzuolo bianco, un’energia, un ricordo: so che qualcosa rimane.
Il suono è un altro elemento centrale del film. Che lavoro avete fatto sul sound design?
Per me il suono è un personaggio: abbiamo lavorato tantissimo sulla dimensione sonora. Con il compositore Alessandro Ciani, il fonico di mix Carlo Purpura e Valerio Tedone sul set abbiamo creato suoni circolari, distorsioni, rumori che ti arrivano da punti diversi della sala, per restituire il mentale di Ada. Ogni volta ci chiedevamo: questo rumore è reale o mentale? Il trenino che lei sente, ad esempio, è davvero fuori o è solo nella sua testa? Le musiche spesso sono più vicine al rumore che alla melodia. Sono una fan assoluta de La zona d’interesse: l’ho visto più volte al cinema solo per il lavoro sul suono. Credo che oggi sia uno dei confini più interessanti del linguaggio cinematografico, e una delle cose che distinguono davvero l’esperienza in sala da quella domestica.
Se potessi cambiare qualcosa di Il primo figlio oggi, a distanza di tempo, cosa rimetteresti mano?
Sono molto autocritica, quindi potrei farti un elenco (ride). Ma se dovessi scegliere un punto, direi il personaggio dell’amica guida turistica/medium e la scena della seduta spiritica. In sceneggiatura era più approfondita, si capiva che lei era una persona molto razionale, colta, che “giocava” a fare la medium più per fare un favore all’amica che per vera convinzione.
Stai già lavorando a un secondo film? Rimarrai nel territorio del dark?
Sono alla terza stesura di un nuovo lungometraggio. Questa volta è più un dramma che un horror vero e proprio, ma l’atmosfera è sempre quella: un mondo un po’ marcio, un tono dark che mi viene naturale. È un progetto a cui tengo molto, e anche per scaramanzia preferisco non dire di più. Posso soltanto dire che Nightswim è ancora al mio fianco e che, qualunque storia racconterò, credo che continuerò a esplorare quella zona grigia in cui le paure più intime diventano immagini.
