Nel 1947 fu pubblicato postumo L'ombra e la grazia (anche La pesantezza e la grazia), una raccolta dei pensieri religiosi di Simone Weil, che Gustave Thibon estrasse dai suoi diari. Diari scritti dalla filosofa e mistica transalpina durante il soggiorno nella fattoria dei Thibon a Marsiglia, che raggiunge nel luglio 1941, dopo aver abbandonato la Parigi occupata dai tedeschi  e in attesa di unirsi alla Resistenza francese in Inghilterra. Qui morirà, il 24 agosto del '43, a soli 34 anni, stroncata dalla tubercolosi e dalla volontà di martirio. Ma non staranno a guardare le sue stelle inquiete: grazie all'opera di divulgazione del "filosofo contadino" Gustave, Simone Weil diventerà, anzi verrà riconosciuta, la pensatrice che ancora oggi – parola di Susan Sontag – "ci commuove, ci dà nutrimento".
Già recentemente portata sullo schermo (Torino Film Festival 2009) nel doc Je suis Simone (La condition ouvrière) di Fabrizio Ferraro, la Weil ora rivive "per fiction" con Le stelle inquiete di Emanuela Piovano, la regista di Amorfù, che della breve vita della filosofa inquadra proprio il soggiorno dai Thibon, Gustave e la moglie, interpretati da Fabrizio Rizzolo e Isabella Tabarini, entrambi più che discreti.
Ma a brillare, da vera stella inquieta, è la Simone Weil di Lara Guirao, che mette volto scavato, corpo esile e forza d'animo in un'interpretazione a cui il film deve molto, moltissimo. E' lei che seguiamo nella sua presa di coscienza e conoscenza della realtà contadina, ma quella vera, quella più autentica, povera, se non misera: per letto vuole un giaciglio di pannocchie, per casa un rudere, per cibo due patate, rifiutando i manicaretti dei Thibon. Ma la Piovano sceglie, condivisibilmente, di non idealizzarla: ne mostra anche i lati più spigolosi, irritanti, quale la voglia, fortissima, di diventare contadina, pur non essendovi assolutamente tagliata, come Gustave stigmatizzerà più volte. Ma tra i due è amore, anzi corrispondenza di amorosi opposti – soprattutto da parte di Gustave – che rischia di mandare in frantumi il presente (il matrimonio del fattore) ma si rivelerà fertile di futuro: quello, postumo, della Weil e del suo pensiero.
Non mancano difetti nel film, con la regia che tentenna d'approssimazione, scenografie e costumi sul bordo del precipizio fiction tv e qualche passaggio di sceneggiatura di (in)sano didascalismo, per non dire della scelta di lasciare alla sola Weil/Guirao l'accento francese – nel film, si rileva apertamente la sua denominazione parigina, ma non basta – mentre tutti gli altri personaggi parlano in italiano "duro e puro". Ma si chiude volentieri un occhio, perché il senso dell'operazione c'è ed è pregevole, senza amaro retrogusti cartacei e filosofici. E poi, un'occhiata di questa “rediviva” Simone Weil tutto può e nulla concede: storicamente, nemmeno a se stessa.