Nel 1953, quando Byron Haskin tradusse per la prima volta sullo schermo il romanzo di H.G. Wells, i fili che muovevano le apparecchiature aliene erano più che visibili. Cinquantadue anni più tardi (centosette rispetto al soggetto originario), il più "grande burattinaio" della storia del cinema moderno riporta in superficie, facendola risorgere dalle viscere, una Guerra dei Mondi mai così catastrofica e sanguinaria. L'invasore extraterrestre, fratello maggiore dell'ombra terrorista post 11 settembre, inizierà senza preavviso il più grande "sterminio democratico" che lo spettatore ricordi: nessuna distinzione fra razze, religioni o classi, il popolo umano dovrà scomparire dalla faccia della Terra. "Non è una guerra, come non lo potrebbe essere tra uomini e vermi", afferma il maniaco della resistenza interpretato da Tim Robbins. E proprio da questa frase, esaustiva tanto quanto inspiegabile appare l'attacco portato dagli alieni, emerge l'impossibilità manifesta di controbattere fattivamente ad una distruzione di massa epocale. Dapprima lampi potentissimi, poi strade che esplodono per dissotterrare giganteschi tripodi inattaccabili, infine il terrore e l'angosciante fuga verso un mal precisato, inesistente riparo. E' il mondo a fuggire. Dalla morte e da una mai così spettacolare distruzione. Fortemente intriso di rimandi simbolici alla più grande e inaspettata sciagura che l'America ricordi - il primo, violentissimo attacco sferrato agli umani viene rappresentato quasi con le stesse modalità con cui l'intero pianeta ha conosciuto lo sgomento di chi si trovava nei pressi del World Trade Center e non mancano, poco dopo, le innumerevoli foto affisse sui muri delle città per segnalare parenti o amici dati per dispersi - il lavoro di Spielberg riesce laddove altri non sarebbero mai potuti arrivare, mantenendo un costante equilibrio tra tensione narrativa (resa magistralmente dal contrappunto di silenzi e strabordanti effetti sonori) e magniloquente catastrofismo, amplificato dal perfetto utilizzo di migliaia di comparse. Di fronte ad una così tonitruante, sconvolgente messa in scena, il microcosmico sguardo su un padre (Tom Cruise) che dovrà badare ai due figli (Justin Chatwin e Dakota Fanning) proprio nel weekend in cui tutto avrà inizio passa quasi in secondo piano. La corsa disperata verso un'utopica salvezza (che Spielberg non potrà ovviamente che rendere concreta) procederà parallelamente al riscatto umano di un padre fino a quel momento poco presente. Meno "eroe" di quanto si potesse temere, il protagonista diventa figura emblematica di una volontà alla sopravvivenza che non prevede lo scontro diretto, ma la salvaguardia dei suoi affetti più cari. Radicale. E trascendentale.