In Romero anche l'ultimo survivor - un nero - veniva eliminato dall'esercito. 37 anni dopo, nel remake del suo La città verrà distrutta all'alba, arriva l'happy end. Ma solo in apparenza. Rewind. Città di provincia americana. Un giorno: agricoltori imbracciano fucili, sceriffi diventano pistoleri, stimati mariti inceneriscono case con dentro mogli e figli. Il seme della follia dilaga. Epidemia provocata dall'accidentale avvelenamento delle falde acquifere. Causa una sostanza tossica in dotazione all'esercito americano (originariamente destinata alle città mediorientali per provocare sommosse). Poi l'insabbiamento: comunicazione tagliate, quarantena, popolazione “deportata” (ci sono carri bestiame, campi di concentramento e separazione coatta degli internati: vi ricorda qualcosa?). Pochi sopravvissuti – non tutti “sani” - cercano una via di fuga dall'olocausto (bello il rovesciamento del mito de “la strada”: da frontiera a minaccia).
Ne rimarranno due - una famiglia - a godersi lo spettacolo di un fungo atomico che ha polverizzato ogni cosa. Fine. Sensazione di déjà-vu. Piacevole perché Eisner conosce il mestiere, costruisce un'opera robusta, tesa e splatter, con un paio di scene da antologia (attenzione al lavaggio automatico). La butta in politica, puntando sul ribaltamento di vittime e carnefici: la città assediata è americana, i cattivi sono i marines, il terrorismo un errore nella catena di comando. Gli manca il coraggio di radicalizzare il gioco al rimpiattino - come distinguere buoni e cattivi? - portandolo oltre i confini della narrazione (includendovi lo spettatore). Piazza la sorpresa nei titoli di coda, quando un tiepido anchorman dà notizia della “grande” esplosione, prima che qualcuno ne interrompa la messa in onda. Schermo nero, no signal. L'immaginario della paura, reale e inventata, storica e cinematografica, implode. Più nulla da trasmettere. Salvo un orrore già accaduto, già mostrato. Remake appunto. Horror vacui del reale, abisso del virtuale. Può esserci una fine più terrificante?