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Dylan O'Brien e James Sweeney in Fratelli a metà
A nemmeno trent’anni, James Sweeney ha diretto, scritto, prodotto e interpretato Straight Up, una piccola sfida sia sul fronte economico (low budget) sia su quello tematico: come si fa una commedia romantica su due persone evidentemente anime gemelle ma che – forse – non sono destinate a stare insieme (una ragazza prova a stare con un ragazzo malgrado lui abbia un disturbo ossessivo compulsivo, detesti avere rapporti sessuali e sia probabilmente gay)?
Nel 2019, poco prima della pandemia, Straight Up colpì il circuito indie per freschezza, complessità e attualità (che grande tema, quello della difficoltà di instaurare un contatto intimo con il mondo); sei anni dopo, al Sundance, Sweeney – ancora una volta regista, sceneggiatore, produttore e attore – approda a un progetto più strutturato, vincendo il premio del pubblico. Il suo secondo film ha un titolo originale molto affascinante Twinless (“senza gemello”) e uno italiano, Fratelli a metà (così lo si trova a noleggio sulle piattaforme digitali, avendo saltato il passaggio in sala), che non riesce a restituire la malinconia di un’assenza, anzi di un’amputazione. Perché di questo parliamo: cosa prova un gemello quando si ritrova solo?


Dylan O'Brien in Fratelli a metà
Una suggestione che David Cronenberg ha toccato, in modo più disturbante, nel capolavoro Inseparabili, e che Sweeney affronta, invece, lavorando dentro un tipico prodotto dell’indie americano (una commedia drammatica o un dramma con umorismo), procedendo in modo non lineare, facendo sì che i pezzi del racconto si rincorrano, si neghino, si sovrappongono e si svelino per costruire una storia sfuggente e spiazzante.
Fratelli a metà parte dall’elaborazione di un lutto: la morte di un brillante trentenne fa sprofondare nel dolore il suo gemello Rocky, meno affascinante e sempre vissuto all’ombra della sua geniale metà, che decide di farsi aiutare da un gruppo di supporto per chi è rimasto, appunto, “twinless”. Qui conosce Dennis, un ragazzo nella sua stessa condizione: i due si riconoscono, trovano conforto l’uno nell’altro, diventano inseparabili ma c’è un segreto che sconvolgerà il loro rapporto ormai vicino alla codipendenza.


James Sweeney in Fratelli a metà
Nell’affidare a se stesso il ruolo dell’ambiguo Dennis, Sweeney compie una straordinaria operazione metatestuale: Fratelli a metà è un film sulla messinscena, sull’inganno, sulla manipolazione in nome del desiderio, apparentemente un tenero mélo sull’affinità elettiva e sentimentale che si rivela via via un thriller acido e sofisticato sul dolore della solitudine, sul corteggiamento, sull’ossessione. Sweeney è sorprendente nel dosare leggerezza e gravità, nel tagliare i sorrisi con la lama di una scrittura feroce, nel non perdere mai di vista il baricentro umoristico dentro una tessitura nera che sconfina in una sorta di incubo psico-sessuale.
Inoltre, in continuità con l’opera prima, continua a riflettere sulle frontiere meno scontate del cinema queer, ragionando sul mascheramento identitario, sull’omofobia interiorizzata, sulla necessità di non lasciarsi etichettare. E offre una bella occasione a Dylan O’Brien, magnifico nel muoversi nei corpi dei due gemelli, l’uno irresistibile per sicurezza di sé e prestanza estetica e l’altro completamente in sottrazione, perfino noioso nel suo legittimo desiderio di ordinarietà.


Fratelli a metà
Fratelli a metà ci ricorda quanto la commedia nera s’addica all’indie, un universo composito che sta riconquistando la libertà di essere sgradevole dopo la consacrazione mainstream in nome di uno standard improntato soprattutto sulla carineria. Un grande film sofisticato e fluido, sospeso tra simpatico divertimento e inesorabile tristezza. Tre candidature agli Independent Spirit Awards (film, sceneggiatura, interpretazione protagonista per O’Brien, quest’ultimo premiato anche al Sundance).
