Gli orizzonti poco esplorati del territorio dell'Arabia Saudita. O meglio, poco toccati con occhio cinematografico, e al femminile. Classe 1974, Haifaa Al Mansour è infatti la prima regista saudita nella storia del suo paese, che compie anche un'altra impresa: girare interamente un lungometraggio nel proprio territorio, e addirittura nella capitale, Riyad.
E lo fa con La bicicletta verde, in orignale Wadjda, dal nome della giovane protagonista del film. Dodici anni, lunghi capelli corvini sull'abito nero, cammina lungo le polverose strade della città zaino in spalla, dentro e fuori casa e scuola, dove dominano, con atteggiamenti molto diversi, due donne: la madre, dolce e premurosa, che la vuole futura donna consapevole, ma che deve tenersi anche stretto, lontano da secondi matrimoni nell'aria, il marito, nell'interpretazione piena della bella Reem Abdullah, l'attrice più famosa in patria, finora solo per la televisione, qui al primo lungometraggio; la direttrice, corvo nero che vigila sull'educazione, soprattutto religiosa, e da qui anche sentimentale e dell'essere persona, delle sue giovani allieve. Wadjda ha le sue All Star ai piedi (le stesse che Waad Mohammed, che la interpreta, aveva nel giorno del provino che l'ha proiettata per la prima volta sul set), sempre: addirittura quando le impongono di indossare scarpe più “consone”, decide di colorare le parti bianche di nero per renderle “giuste”. Ascolta musica “estera” a casa, e fa cassette con canzoni d'amore, e braccialetti con i colori nazionali, che vende di nascosto a scuola.
Non vuole stare alle regole. E anche per questo, dopo un piccolo sgarro - l'amico Abdullah le sottrae il velo, fuggendo via velocemente inforcata la bici -, lo vuole battere in una corsa su due ruote. Anche se le donne in Arabia Saudita non possono andarci, e neppure guidare: è sconveniente. Decide, per avere i soldi e comprarsene una, di fare una gara indetta dalla direttrice: di Corano, imparandone i versetti, e sapendoli dire e cantare... Non ci sono sale da cinema in territorio saudita, sono vietate, e non si sa se passerà mai in televisione Wadjda, ma ne avrebbe molti diritti, mostrando una cultura senza macchiare, se non lasciando che il nero si spanda naturalmente dove il colore è già offuscato, in un paese dove si può entrare solo se musulmani, per motivi religiosi - la Mecca - e di lavoro. Girato con un'apparente semplicità, molto attenta, è un film inevitabilmente tutto al femminile, dove piccole parti sono dedicate all'uomo, che non ne esce né bene né male, ma solo come parte di un sistema di regole.
Come quello che porta una bambina della scuola, a dodici anni, a sposare un ragazzo di venti...e una donna a non cantare il proprio canto troppo forte, perché dall'altra parte del muro potrebbe esserci qualcuno, non il marito, ad ascoltare, e desiderare... Wadjda imparerà a dare voce al suo canto, quello che non era stata capace di fare in precedenza, mettendo altri passi in più, All Star ai piedi e ai pedali, sulla strada della dignità della persona, nella speranza, che dovrebbe appartenere a tutti, di far convivere il più possibile individuo e propria cultura.