Mentre la Disney vive il periodo forse più difficile della sua storia, affogata in una crisi creativa, finanziaria e di brand inimmaginabile, e l’animazione d’autore al contrario batte più di un colpo portando a casa successi e Oscar, la Dremaworks ci ricorda che una terza via è ancora possibile. La vecchia aurea mediocritas che una volta era lo stigma per lo studio fondato da Spielberg, Katzenberg e Geffen, oggi è un asset da preservare contro gli sbandamenti di casate più rinomate. E dunque Kung Fu Panda 4. L’usato sicurissimo per un rilancio conservativo del cartoon per famiglie. Animazione antropomorfa vivace e coloratissima, allegra ma non caustica, fracassona ma non confusionaria, inclusiva ma non ossessionata, a bassa intensità, con taglio netto alle frequenze più alte e più basse. Medietà eretta a sistema. Sostenuta da una campagna promozionale più massiccia del solito. Vecchio cinema.

© 2024 DreamWorks Animation L.L.C. All Rights Reserved.
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Zhen (Awkwafina) in DreamWorks Animation’s Kung Fu Panda 4, directed by Mike Mitchell.

Otto anni dopo l’ultima avventura il Panda Po, che ne corso della saga ha conosciuto vari step di crescita - da goffo plantigrado a guerriero kung-fu difensore della giustizia – deve alzare nuovamente l’asticella: incalzato dal Maestro Shifu, che lo vorrebbe trasformare nel nuovo leader spirituale della Valle della Pace, dovrà prima abdicare da Guerriero Dragone e nominare un suo sostituto. Che è peggio che bere la cicuta per lui, affezionato com’è al suo ruolo e ai privilegi che gli concede, come il potersi rimpinzare senza decenza e abbandonarsi a infantili spacconate. A rallentare lo scouting interviene poi un inconveniente esterno: l’ascesa nei villaggi vicini di un temibile camaleonte che minaccia l’armonia di tutti i regni. Senza i Cinque Furiosi (Tigre, Scimmia, Mantide, Gru e Vipera), impegnati in compiti off screen (scelta coraggiosa, forse l’unica, degli sceneggiatori), Po dovrà provare a fermarlo con l’ausilio di un’improbabile compagna di avventure, una volpe di nome Zhen.

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Granny Boar (Lori Tan Chinn) in DreamWorks Animation’s Kung Fu Panda 4, directed by Mike Mitchell.

Il viaggio può ricominciare. E la maturazione di Po tautologicamente compiersi con il definitivo ingresso nell’età adulta, quella delle responsabilità ultime: il mettersi da parte. Difficile possa suonare come atto finale di un franchise che ha saputo capitalizzare al massimo il canovaccio del percorso di crescita, riproponendolo in tutte le combinazioni possibili. Camaleontica più della nuova minaccia affrontata da Po, la saga ha fatto del trasformismo senza cambiamento il proprio winning.

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Han (Ke Huy Quan) in DreamWorks Animation’s Kung Fu Panda 4, directed by Mike Mitchell.

Il resto è mestiere, ovvero commedia di duetti – le insuperabili diatribe tra Po e Shifu, le dinamiche tra i due padri del Panda, Ping e Li Shan.
Detto dell’abile mossa di estromettere stavolta i Cinque Furiosi, va riconosciuto che l’ingresso di un personaggio nuovo di zecca come Zhen si è rivelato azzeccato.
Almeno quanto la sequenza nel “saloon” sullo scoglio, divertito omaggio al western. E poi fughe, inseguimenti, capitomboli, in uno spettacolo dinamico, mutaforma e sbrilluccicante. E comunque più “croma” che cronachistico, pennellate di colore attraverso paesaggi urbani movimentati, nature lussureggianti e interni caldissimi.
Un carnevale per gli occhi, e chi vuole andare per il sottile ci vada. Che alla Dreamworks si pensa in grande: schermone multisala e pop-corn in mega porzioni.